La favola del bimbo malato divenuto campione. Messi, i 30 anni del re del pallone
“Non scrivete di lui. Non parlate di lui. Guardatelo”. L'invito di Pep Guardiola disegna l'unica via possibile per tentare di penetrare il senso e lo spirito dell'icona del calcio moderno, dell'erede designato di Diego Maradona, del trentenne, padre e in fondo eterno bambino Leo Messi. A Barcellona, insieme a Iniesta, ha vinto più di ogni altro. Si è trovato adulto senza essere cresciuto, si è visto alla sbarra per evasione fiscale, l'hanno chiamato “Nano”, l'hanno chiamato “Muto”. È rimasto un individualista che, per dirla con Maradona, “gioca per se stesso”. Ma non tanto, come spiegava il Pibe de Oro, perché si senta superiore ai compagni. Per capirlo, però, bisogna guardarlo.
Il “campione-cane”
Messi gioca alla Playstation, usa il Barcellona o l'Argentina, e sfida online avversari occasionali che non sanno chi stanno affrontando. Di calcio però ne guarda poco, lo annoia. Si stanca anche delle serie tv, troppi eventi e personaggi da ricordare. Leo è l'ombelico del suo mondo, di certo allargato da quando è diventato padre. Ma in ogni mossa, in ogni dribbling a una velocità lontana da ogni possibilità di umano pensiero, Messi racchiude il suo manifesto. “Mi piace andare contro i difensori e batterli, mi piace cambiare le cose”. La sua è una istintiva, primordiale corrispondenza d'amorosi sensi con quel che viene prima del calcio, col pallone.
È connaturato alla sua esistenza. “In una sua radiografia” scherzava, ma nemmeno troppo, l'ex ct argentino Bilardo, “troverete un oggetto sferico attaccato al suo piede sinistro”. I suoi occhi, ha scritto in un pezzo memorabile Hernán Casciari, giornalista e autore di riferimento del genere della blogonovela a metà fra blog e romanzo, “sono sempre concentrati sul pallone, ma non sul calcio e sul suo contesto. Messi sembra non capire nulla del calcio”. Messi “è come in trance, sotto ipnosi”. Gli ricorda il suo cane Totín che magari non reagiva se i ladri rubavano l'argenteria ma impazziva se qualcuno afferrava una spugna. “I suoi occhi diventavano giapponesi, attenti, intellettuali. Come gli occhi di Messi, che cessano di essere quelli di un pre-adolescente confuso e durante una frazione di secondo si trasformano nello sguardo indagatore di Sherlock Holmes”.
Messi un uomo-cane “con un talento stupefacente nel mantenere sotto il suo controllo un oggetto gonfio e sferico e portarlo fino a una rete situata alla fine di una pianura verde. Se glielo permettessero, non farebbe altro”. E per questo, pur essendo il miglior marcatore nella storia dell'Argentina, in nazionale non è andato oltre il Mondiale under 20 e l'oro olimpico di Pechino.
Messi è il pallone
In fondo, è la storia della sua vita. Aveva cinque anni Lionel Andrés Messi Cuccittini quando Salvador Aparicio lo vede per la prima volta. È il 1991, sta cercando di completare due squadre per una partita fra bambini di cinque anni. Messi è solo, col pallone, calcia verso il muro. Aparicio chiede a mamma Celia se può giocare. Lei dice di no, non pensa sia capace. Aparicio ha allenato i fratelli di Lionel, Rodrigo e Matias, e non smetterà di ringraziare la nonna di Messi. “Fallo andare, non gli farà male” dice. Aparicio lo schiera all'ala destra, quella più vicina all'unica tribuna di cemento, “così siete più vicine se dovesse succedergli qualcosa”. Ma succede quel che nessuno aveva immaginato: Lionel sembra non abbia mai fatto altro in tutta la vita.
A dieci anni lo fanno entrare in campo nell'intervallo delle partite al Coloso Stadium, lo stadio del Newell's Old Boys oggi dedicato a Marcelo Bielsa. Sale le scale del sottopassaggio, sempre palleggiando, va avanti fino al cerchio di centrocampo, continua fino all'ingresso in campo delle squadre e torna indietro, senza perdere di vista il pallone. I tifosi non ci credono, lo scambiano per un nano del circo: un bambino a dieci anni non può essere così bravo. Un bambino di dieci anni, così, da quelle parti non l'hanno mai visto. E non lo vedranno più.
Il Barcellona e il contratto sul fazzoletto
La prima crisi economica d'Argentina coincide con uno dei primi anni della pesante quanto onerosa cura cui Lionel si sottopone per la carenza parziale di ormone della crescita. È uno dei capitoli più raccontati della sua biografia pubblica. Il Newell's non ha i soldi per pagare, la famiglia parla solo di due versamenti di 200 dollari a distanza di sei mesi, la dirigenza parla di pagamenti mensili anche se di entità variabile e li accusa di ingratitudine. Il viaggio li porta a Barcellona. L'agente Gaggioli, buon difensore di Rosario passato all'Espanyol nel 1974, lavora in Spagna da anni. È lui l'intermediario che organizza il provino, ma quando vede Leo scendere dall'aereo si pente: è troppo minuto, quel bambino.
La storia, scriveva John Carlin sul Guardian, “è piena di figure che hanno compensato la bassa statura con una grande personalità. Messi però non ha nemmeno questa”. Messi “è timido, non ruba l'occhio. Anche chi lo conosce bene dice che è estremamente riservato e tutti i giornalisti che l'hanno intervistato possono testimoniare quanto l'esperienza sia frustrante”. Appena ha un pallone fra i piedi, però, come il cane Totin Messi si illumina, incanta. Charlie Rexach, allora direttore tecnico del Barcellona, gli fa firmare il primo contratto su un fazzoletto che Gaggioli conserva ancora incorniciato e rifiuta di far entrare nel museo blaugrana.
“Io, Charly Rexach, nel mio ruolo di direttore tecnico del Barcellona, e nonostante l'esistenza di alcune opinioni contrarie, mi impegno a mettere sotto contratto Lionel Messi finché saranno rispettate le condizioni concordate” si legge. Vuol dire che qualcuno al Barcellona ha visto transitare il più grande genio del pallone e ha rifiutato una peospettiva che prometteva esperienza e mistero per tutta la strada. La storia, però, tramanda il peccato ma non il peccatore.
Lo stile di gioco
La famiglia Messi passa la prima notte a Barcellona al Plaza Hotel a due passi Montjuic, lo stadio dell'Espanyol. Qui, il 16 ottobre 2004, debutta nella Liga. Entra negli ultimi 10′, gioca troppo poco per prendere un voto in pagella sui giornali. Il Mundo Deportivo si limita ad annotare che è il più giovane a fare il suo esordio con la maglia del Barcellona Paulino Alcántara nel 1912. Alcantara segnò 369 gol in 357 partite, amichevoli comprese, fino al 1927. Un record che Messi supererà nel marzo 2014. Nessuno come lui nella storia del Barcellona. Più di un'icona, per una squadra che da sempre si professa più di un club. “Messi batte i primati di epoche molto lontane” scrive ancora Casciari, “perché quelle erano le ultime in cui a calcio giocavano gli uomini-cani”.
Nel tiqui-taca, il “taca la bala” portato all'estremo, Messi ha partecipato alla riscrittura del suo ruolo e del calcio. Tito Villanova, poi morto di cancro, lavora con la “cantera” sulla tattica e sul contatto con la palla. Guardiola, che a suon di compiti semplici scrive la più grande rivoluzione calcistica dell'era moderna, mette il concittadino di Che Guevara dove il talento individuale e l'organizzazione di squadra possono fondersi meglio. “Il mio miglior giocatore voglio che tocchi più palloni possibile, e quindi lo metto dove passano più palloni”.
E' il 2010-2011. Messi diventa “falso nove” e l'anno successivo segna 50 gol, il suo record stagionale nella Liga. Ma le difese più attendiste, vedi l'Inter di Mourinho nell'anno del Triplete, o l'atteggiamento di certi compagni che si allargano e restano fuori dal gioco per lasciargli più spazi, già fanno intravedere le controindicazioni del 4-3-3 con Messi centravanti. Il tridente con Suarez e Neymar cambia ancora gli equilibri, valorizza l'interazione. Messi, non a caso, è tornato su medie superiori ai 5 tiri a partita, come nel 2011-2012.
Vedere per credere
Tutto quel che si vede di Messi, però, è quel che Leo vuole farci vedere. Nessuno conosce davvero il Messi fuori scena, e non riguarda solo la vicenda delle tasse non pagate sui diritti d'immagine. La semplicità della persona Messi illude che la brillantezza del campione Messi sia replicabile. È una magia che Ray Hudson, il telecronista poeta di GolTv, ha raccontato, pur senza le vette del padre del barrilete cosmico, Victor Hugo Morales. “Quanti angeli possono danzare sulla cruna di un ago? Quanto è grande Messi? Non esiste risposta. È come contare le bollicine in una bottiglia di champagne”. Non si può descrivere. Si può solo guardare.