Kieft, il tulipano nero: “Io, drogato per 18 anni”

Il brutto anatroccolo di Amsterdam, Wim Kieft, non sarebbe mai diventato uno splendido cigno. Gli dei del calcio avevano scelto diversamente. Avevano scelto van Basten di Utrecht perché la scuola olandese sbocciasse in Europa. Williem, nato nei sobborghi della capitale: troppo alto e anche troppo goffo per il dinamismo e il furore agonistico del calcio totale. Nell'accademia giovanile dell'Ajax vi entrò a dieci anni: lui sognava di giocare all'attacco ma finì nella trincea della difesa, grosso com'era (alto quasi 190 cm quando nemmeno era maggiorenne) la velocità non è mai stata il suo forte. Fu Leo Beenhakker a cambiare il corso del suo destino all'epoca delle giovanili A dei lancieri: gli cucì addosso il ruolo di centravanti mettendo al suo fianco ali capaci di fare decollare la manovra, spedire là in mezzo palloni che Kieft insaccava con naturalezza disarmante. Da bomber vero. Wim segnava e sognava, quando arrivò in prima squadra sembrava potesse toccare il cielo con un dito. Così vicino alla grandezza, senza mai tenerla stretta in pugno. Il destino aveva scritto un altro copione: controfigura, scomparire dietro le quinte e lasciare il palcoscenico, la scena madre ad altri. Nel 1983 Cruyff lo mise ai margini e non gli restò che tentare l'avventura all'estero. Così come Michels, altro guru della selezione orange, decise che nel 1988 doveva essere Bosman e non lui l'alter ego di van Basten prima che la caviglia smettesse di fare i capricci e all'Europeo, contro la Russia, regalasse un segno di pace con una parabola incredibile, leggendaria.
Non c'era spazio per Kieft, bravo ma non un campione. Forte ma non invincibile. Si mosse nel solco di Krol, van der Korput e Peters. In Italia fu accolto dal Pisa di Anconetani, i primi mesi furono un autentico disastro: passare dal calcio totale e dalle scorribande degli esterni d'attacco al catenaccio, al gioco rude della provincia del pallone fu dura. Dalla A alla B e ritorno: 3 stagioni, 91 partite e 25 gol. Fu l'anticamera dell'addio, il trasferimento al Torino (una stagione, 19 presenze e 8 gol) chiuse la sua esperienza tricolore. Tornò in Olanda, al Psv e ancora una volta la sorte si divertì a relegarlo in secondo piano: c'era Romario, funambolo brasiliano, tanto capriccioso quanto talentuoso, a rubargli la scena. Un paio di campionati, qualche buona soddisfazione e poi di nuovo via: questa volta in Francia, al Bordeaux. E' il mio momento, pensò, ma si sbagliava: il club fece bancarotta perché il presidente venne accusato di frode fiscale e Kieft tornò sulle proprie orme. Di nuovo l'Olanda, di nuovo il Psv, di nuovo Michels e la schiera di pretoriani. "Non sono mai stato talentuoso come Van Basten o Vanenburg – disse -, ma avevo dalla mia l'altezza e la forza fisica". Di nuovo fuori, a causa dell'infortunio al tendine d'Achille che troncò in maniera traumatica la carriera. Nessuna uscita di scena trionfale, sgattaiolò dietro il sipario e fu l'inizio di un incubo.
Il tulipano sfiorito. "Avevo toccato il fondo – ha raccontato di recente al De Telegraaf, parlando della sua autobriografia -. sono stato dipendente da alcol e droghe per 18 anni. I miei problemi sono cominciati nel 1994, quando ho smesso di giocare. Ero disperato e sono finito nel circolo vizioso della cocaina". A uscire dalla crisi, a ricondurlo fuori dal tunnel fu Fred Rutten, allenatore del Psv Eindhoven, che nel 2009 lo volle accanto a sé nello staff tecnico. "Mi ha salvato la vita portandomi in clinica. Adesso sono pulito. Sono ancora vivo". A 50 anni, per una volta, aveva trovato qualcuno che lo aveva messo al centro della scena. Ma i suoi guai non sono ancora finiti… "Ho provato la coca per la prima volta a 33 anni, in discoteca. Da allora ne avrò sniffata una quantità pari a mezzo milione di euro. Oggi vivo con 20 euro al giorno, se ne avessi 100 li spenderei tutti. Giro in treno e in bici, non posso permettermi un taxi. Per fortuna il lavoro, da opinionista o commentatore tv, non mi manca".