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Juventus fra calcio e potere, da 120 anni vero specchio d’Italia

La Juventus festeggia i 120 anni dalla fondazione. Con Andrea Agnelli è arrivato lo stadio di proprietà e il record di fatturato. Continua la storia fra la squadra e la famiglia che ha reso grande il club e la Fiat. Un binomio di calcio e business che ha diviso i tifosi e ha raccontato il Paese che cambia.
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Cosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure, in 120 anni di storia in bianco e nero? Rimane il presente di una Juventus che è da sempre “ la "fidanzata d'Italia", la regina indiscussa del nostro football, amatissima da milioni di tifosi da nord a sud della Penisola, riferimento obbligato per qualsiasi tipo di riflessione sul nostro calcio” come scrivono Guido Luguori e Antonio Smargiasse in Calcio e Neocalcio: Geopolitica e prospettive del football in Italia.

2017 da ricavi record

Oggi come ieri, Juventus vuol dire legame con la famiglia Agnelli, vuol dire un modello di business che considera il club come un'azienda, una fonte di profitti. Insieme bello e utile, dunque, esperienza condivisa con i tifosi nel nuovo stadio, pilastro per un fatturato da record. Prima italiana a superare i 300 milioni di ricavi, due volte in finale di Champions League, diversifica le fonti di guadagno meglio di tutti in Serie A anche se i diritti tv pesano ancora per il 56% dei ricavi complessivi.

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Ha chiuso il bilancio 2016-2017 con 562,7 milioni di ricavi, il 45,1% rin più rispetto al 2016 e un utile al netto delle tasse di 42,6 milioni. Ha chiuso in utile il terzo esercizio di fila, ha internalizzato le attività di licensing e merchandising, ha aumentato ogni categoria di ricavi.  Ha costruito un'identità intorno al brand Juventus, a quella J che si è fatta discusso logo, un mix locale e globale sospeso tra il recupero dell'area della Continassa, le scuole calcio in giro per il mondo e partner commerciali anche regionali, sull'esempio del Manchester United.

Calcio e business, luci e ombre

E dove c'è business, dove più forte brilla la luce, più forti si delineano le ombre, che prendono la forma delle infiltrazioni criminali nella curva. Pecunia è potere, anche per Andrea Agnelli, presidente dei club europei che ha spinto per aumentare il peso italiano nella nuova Champions League. Da presidente della Juventus più vincente di sempre, un regno su cui da sei anni non tramonta mai il sole. Meglio anche del quinquennio d'oro, quando per la prima volta i binari del successo sportivo e del coinvolgimento imprenditoriale della famiglia Agnelli hanno iniziato a viaggiare insieme. Quando vincere è diventata l'unica cosa che conta.

Fin dalla sua fondazione, ha scritto il critico d'arte Luigi Beatrice, “la Juventus è stata depositaria di un'estetica assai particolare, in campo e fuori, capace di sintetizzare la componente aristocratica e quella elitaria, la nobiltà con il popolare, il portamento signorile al sudore proletario”. Un'estetica che si è fatta storia con l'arrivo di Edoardo Agnelli alla presidenza e Carlo Carcano in tribuna. Era la Juve di Combi-Rosetta-Calligaris, che ha forzato il regime fascista ad aprire agli oriundi dopo l'accordo con Mumo Orsi, la prima Juve gestita come un'azienda.

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Il quinquennio d'oro e la Juve fidanzata d'Italia

I successi e una sapiente costruzione di immagine facilitano l'associazione fra il club e uno stile di vita elevato. E insieme allentano il legame campanilistico fra una squadra che non ha nel nome alcun riferimento geografico e la città di Torino. La Juve, sottolinea lo storico Giovanni De Luna, è uno «strumento di ribellione» contro i capoluoghi locali. È la Juve che gioca bene, vince, e per questo “non è né lombarda, ne emiliana, né veneta, né toscana: appartiene a una regione che ha innervato l'esercito e la burocrazia nazionali: di quella regione il capoluogo è stato anche capitale d'Italia” scrive Gianni Brera.

L'ultimo scudetto di quel quinquennio coincide con l'incidente aereo di Edoardo Agnellida un’elica dell’idrovolante pilotato dall’asso dei cieli Ferrarin mentre stava per ammarare davanti al porto di Genova il 14 luglio del 1935. C'è anche questo, fra le pagine chiare e le pagine scure, un'eco di tragedia nel momento del successo. Mezzo secolo dopo, il bianco e il nero si tinge nel ricordo col rosso del Liverpool e del sangue di 39 tifosi nell'inferno dell'Heysel.

Il legame con la Fiat

Nel 1947, Giovanni Agnelli, figlio di Edoardo, diventa presidente di quella Juventus che si esalta per Carlo Parola, il difensore dalla rovesciata più amata dagli italiani, da oltre mezzo secolo icona delle figurine, e Giampiero Boniperti. Lascia nel 1953, con il fratello Umberto che gli subentra due anni più tardi. È in quel periodo che inizia la più forte immigrazione interna verso Torino. Fra il 1951 e il 1967 la popolazione aumenta da 719.300 a 1.124.714 abitanti. Durante una sfida fra i bianconeri e il Palermo, notava Goffrdo Fofi che ha realizzato il più completo studio sull'emigrazione dal Sud verso il capoluogo piemontese, “c'erano molti entusiasti tifosi immigrati siciliani i cui figli, ormai, come ogni operaio della Fiat che si rispetti, tifavano per la squadra di casa”. Torino era come New York, la Juventus l'incarnazione di un mito di ricchezza, successo e modernità.

La Fiat fa costruire scuole e organizza vacanze per i figli degli operai. La Juve è la squadra della Fiat e degli Agnelli, che scelgono gli allenatori, discutono di tattica, parlano con i giocatori.

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Una squadra specchio dell'Italia

In diversi casi, scrive ancora Beatrice, la Juventus “dimostra palesi coincidenze con gli accadimenti del tempo: non è stata forse beat, imprevedibile e senza leader la Juve di Heriberto Herrera, vittoriosa nel 1967, quasi un anticipo estetico del '68? E l'italianissima e muscolare compagine del Trap, vittoriosa a Bilbao nel 1977, una Juventus resistente e tenace, come era necessario in quegli anni tragici?”.

È quello il vero inizio della modernità, raccontato in un bel libro del Collettivo Banfield (1977 Juventus Anno Zero, Bradipo Libri). È una squadra proletaria, operaia, di cui gli operai si sentono fieri. Orgogliosi di vedersi rappresentati da un centravanti siciliano come Anastasi, da un terzino sardo (Cuccureddu), da un'ala salentina fra i migliori interpreti di sempre del ruolo (Causio), da un difensore moderno nato in Libia, Gentile di nome ma non certo in campo. È un anno difficile, il 1977, l'Italia è stretta fra il prezzo del petrolio che si impenna e il Movimento studentesco che voleva l’immaginazione al potere, fra il sorpasso mancato del Pci alla Democrazia Cristiana e l’arresto di Renato Vallanzasca. Nell'Italia delle proteste sindacali, che unisce sotto la stessa bandiera bianconera Togliatti e Almirante, il segretario della CGIL Luciano Lama e Henry Kissinger, nell'estate della morte di Moro, la Juve offre meno del Vicenza per Paolo Rossi: una cifra troppo alta sarebbe stata uno schiaffo agli operai Fiat sul punto di essere licenziati. Mancano due anni alla marcia dei quarantamila.

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Il Mundial e lo stile Juve

Dopo il Mundial di Spagna, quella squadra nata da un gruppo di studenti del Liceo Classico Massimo D’Azeglio, che il primo novembre 1897 hanno scelto di iniziare la leggenda nel segno e nel nome della “gioventù” (niente a che vedere con la giovinezza primavra di bellezza che sarà di un'altra epoca in cui si capirà che a giocar col nero perdi sempre), diventa simbolo di globalizzazione. Uno straordinario gruppo di fenomeni messo insieme sulla strada del superamento delle frontiere prese il via negli anni Ottanta crea e rinforza lo stile Juve, la squadra di Scirea e di Zoff, di Boniek e Platini, di Tardelli e Cabrini.

Il resto è storia e ricordo più fresco, dei Baggio e dei Del Piero, dei cambi di proprietà e delle zone grigie, delle nuove ombre che son tornate in superficie quando più forte si è fatta la luce del successo economico e sportivo. Turone, Agricola, Ronaldo: tre fotogrammi per cui non servono altri accompagnamenti. Tre capitoli cui poi si aggiunge l'amaro post-Mondiale, le conseguenze di Calciopoli, il mostro da esporre in prima pagina, il purgatorio e il ritorno.

Il ritorno dei più amati e dei più odiati d'Italia, divisa in fondo da sempre fra juventini e anti-juventini. Il ritorno di una famiglia che è un marchio, un brand, un pezzo di storia. Un viatico per il futuro.

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