Josef Bican, il miglior goleador della storia del calcio
La mappa del cimitero di Vyšehrad a Praga non mente. Qui riposano Antonin Dvořák e Smetana, l’artista-simbolo dell’art nouveau Alfons Mucha, autore dei manifesti di cui la leggenda del tennis Ivan Lendl vanta una delle principali collezioni d’Europa, e il poeta Jan Neruda, che ha ispirato Ricardo Reyes Bosoalto a sceglierlo come pseudonimo accanto al nome Pablo. Sono tutti segnati sulla mappa che chiarisce all’ingresso la posizione delle tombe più importanti. Alla didascalia numero 22 su legge: Bican, Josef (1913-2001), “nejlepsi strelec fotbalové historie”, “miglior cannoniere della storia del calcio”. Pelé chi? Maradona chi? Bican ha segnato due gol in più di O’Rey nelle sole partite ufficiali e più di 1400 contando anche le amichevoli. È l’unico ad essere andato in rete con la maglia di tre nazionali diverse e l’IFFHS, l’istituto di storia e statistica del calcio, gli ha assegnato il “Pallone d’Oro” per il più grande goleador del secolo scorso. Ma in un primo momento non gli avevano calcolato i gol segnati negli anni della Seconda guerra mondiale, e per l’affronto ha disertato la premiazione. Un segno di coerenza per un uomo libero che non ha mai perso il coraggio delle sue idee, un campione che ha pagato per la sua libertà.
Gli inizi a Vienna – Bican nasce nel 1913 da padre boemo e madre ceca a Vienna, dove allora si trovavano, contemporaneamente, Hitler, Trockij, Freud, Tito e Stalin. Inizia a giocare all’Hertha Vienna, la squadra di papà Frantisek che poi lancerà Rudolf Raftl, il portiere del Wunderteam austriaco degli anni Trenta. Frantisek muore quando Josef a 12 anni per problemi a un rene, derivati da un durissimo contrasto di gioco e mai curati. La famiglia è povera e Josef, racconterà, gioca scalzo e sviluppa così una particolare sensibilità nel controllo di palla. Passato per le giovanili dello Schustek e del Farbenlutz, nel 1931 passa per 150 scellini al Rapid Vienna. L’origine proletaria del club ha già esaltato, negli anni Venti, un centravanti simbolo della scuola danubiana, Josef Urisil, pure lui di origine boema, che finirà immortalato nelle canzoni di cabaret e a fare da testimonial praticamente per tutto. La leggenda della macchina da gol inizia qui: segna 52 reti in 49 partite, è capocannoniere nel 1934 e un anno dopo vince il campionato. Hugo Meisl, l’ebreo boemo che ha portato il calcio in Austria insieme a Hogan, lo scozzese che ha evangelizzato l’Ungheria al verbo del “passing game”, gli apre le porte della nazionale.
Il Wunderteam e i Mondiali – Con il paradosso di un allenatore conservatore che rivoluziona il calcio, Bican, che corre i 100 metri in 10,8 secondi e sa usare indifferentemente destro e sinistro, si incastra a meraviglia. Meisl è convinto che il movimento sia il segreto del successo, che bisogna far lavorare la palla e ha sempre cercato attaccanti completi e dal fisico forte, anche da affiancare a Sindelar, “Cartavelina”, uno dei più grandi geni del calcio, un esempio di libertà che rifiuterà di salutare Hitler nell’amichevole celebrativa per l’Anschluss e di passare nella nazionale tedesca e morirà intossicato dai fumi di una caldaia difettosa insieme alla compagna, l’italiana Camilla Castagnola. Bican debutta a 20 anni e 64 giorni, il 29 novembre 1933, nel 2-2 in Scozia. Meisl lo porta anche ai Mondiali in Italia nel 1934. “Pepi” segna un solo gol, ma decisivo: a Torino è sua la rete che vale il 3-2 ai supplementari nell’ottavo contro la Francia. Il quarto contro l’Ungheria è nervoso, cattivo. Viene espulso Markos, ala destra ungherese, unico giocatore allontanato in tutto il torneo (ancora non esistevano i cartellini, arriveranno solo nel ’74), ma Bican avrebbe meritato la stessa sorte per il durissimo intervento su Toldi. Sulla semifinale con l’Italia di Pozzo, grande amico di Meisl, e sull’arbitraggio fin troppo casalingo di Ivan Eklind che, caso unico nella storia dei Mondiali, arbitrerà l’Italia anche nella finale di Roma, si è detto e scritto tutto. Bican ha anche sostenuto che a un certo punto l’arbitro abbia deviato di testa un suo cross e appoggiato la palla a un difensore italiano. Ma resta solo la sua parola. Il Rapid fa di tutto per trattenerlo dopo i Mondiali, gli offre anche 600 scellini ma Pepi cambia sponda e dal 1935 gioca due stagioni con la maglia dell’Admira. Vince due campionati, ma segna “solo” 18 reti in 26 partite. Chiude anche l’esperienza nel Wunderteam con 14 gol in 19 presenze. È il momento di tornare a casa.
Lo Slavia Praga – Neanche Pelé al Santos o Lionel Messi al Barcellona avvicinano le sue medie allo Slavia Praga. In undici stagioni, segna 395 gol in 217 partite di campionato (1,8 a partita), 832 complessive in 427 presenze. Arriva e vince subito, al primo anno, il suo primo trofeo internazionale, la Mitropa Cup, con tanto di prevedibile centro nella finale d’andata contro il Ferencvaros. Con lo Slavia, per tre volte segna sette gol in una sola partita, è capocannoniere per nove stagioni di fila della Statni Liga, poi diventata Narodni. Si racconta che i tifosi, durante gli allenamenti, paghino per vederlo centrare col pallone una serie di lattine appoggiate sopra la traversa della porta.
Bomber di tre nazionali – Prende subito la cittadinanza cecoslovacca, anche lui come Sindelar ha prima rifiutato di entrare nella nazionale tedesca dopo l’Anschluss, ma non parte per i Mondiali di Francia per un errore di trascrizione. Debutta il 7 agosto 1938 con la tripletta alla Svezia, battuta 6-3. Gioca qualche altra partita, poi tornerà a indossare la maglia della Cecoslovacchia dopo la Seconda guerra mondiale (12 gol in 14 presenze). Perché la nazione sparisce dopo l’annessione dei Sudeti al Terzo Reich: la Conferenza di Monaco la trasforma nel protettorato tedesco di Boemia e Moravia, che ha avuto anche una nazionale. Ha giocato solo una partita, contro la Jugoslavia. Bican è il centravanti di quella nazionale e firma una tripletta: la partita finirà 4-4.
La fine – Uomo di due lingue e due culture, né fascista né comunista, nel 1948 lascia la capitale. Lo vuole la Juventus, che si è già entusiasmata per Vycpalek, ma ha paura, come gli dicono alcuni amici, che il PCI stia per prendere il potere. La storia rivelerà l’entità dell’errore e aggiungerà un rimpianto alla sua carriera, che si muove tra il Vitkovice Vitkovicé Zelezarny (che nella toponomastica calcistico-sociologica nel blocco sovietico indica la squadra delle acciaierie di Ostrava), e il Hradec Králové. Le autorità gli impongono di partecipare alla parata del 1 maggio 1953. Gli altoparlanti diffondono cori di “Lunga vita al presidente Zapotocky!” ma la gente in strada risponde: "Lunga vita a Bican! Lunga vita a Bican!". Non può funzionare. La commissione locale del Partito lo fa accompagnare in stazione e Josef lascia la città nel giro di un’ora. Tornerà a Praga, allo Slavia che intanto ha cambiato nome in Dynamo, dove giocherà fino a 42 anni. Riuscirà ad allenare lo Slovan Liberec, lo Spartak Brno, il Příbram, lo Hradec Králové, il Kladno per cinque stagioni, i belgi del Tongeren con un raro permesso speciale dopo la Primavera di Praga (che porterà dalla quarta alla seconda divisione tra il 1968 e il 1962) e nel 1977 il Benesov. Il regime gli toglierà tutto, lo farà lavorare come operaio alla stazione di Hoselovice, e lo dimenticherà fino all’inizio degli anni Novanta. “Tante volte ho sentito che era più facile segnare ai miei tempi” dirà negli ultimi anni di vita. “Ma le occasioni erano le stesse cent’anni fa e saranno le stesse fra cent’anni. E se io avevo cinque occasioni, segnavo cinque gol; se ne avevo sette, ne segnavo sette”. Elementare, Josef.