Insulti e minacce, gli Ultras del Piacenza intimidiscono squadra e società (VIDEO)
Piacenza, Ultras contestano squadra e società
Rimproveri e insulti ai giocatori
Succede a Piacenza. La squadra retrocessa lo scorso anno dalla Serie B in Lega Pro (1a divisione B), se la passa molto male in classifica dove annaspa nei bassifondi (partita con -6 di penalizzazione, ora è terzultima con 13 punti , ma anche fuori dal campo le cose non vanno per nulla bene, con i giocatori che ormai da mesi non percepiscono lo stipendio. Le attenzioni degli Ultras sono però concentrate a quanto accade in campo. E dopo l'ennesima sconfitta scatta il confronto (unilaterale) squadra-tifosi.
Gli Ultras e la confusione dei ruoli: da tifosi a giudici
Dalle accuse di scarso impegno, agli insulti, il passo in questi casi è breve. Le immagini parlano da sole. Urla, improperi, atteggiamenti intimidatori, con la società prima e i giocatori poi, bersagli quasi inermi. Quello che vediamo non è un caso isolato, ma è parte di un fenomeno molto più ampio. Slogan come “no alla tessera del tifoso”, “no al calcio moderno”, “no alle pay tv”, “no al calcio spezzatino”, sono diventati familiari. Tifosi che confondono il loro ruolo, non supporters ma giudici insindacabili di tutto ciò che ruota intorno alla loro squadra, in nome della mentalità Ultras . Un concetto mutuato dagli Hooligans. Peccato che ad esempio gli inglesi, alle pay tv e al calcio spezzatino spalmato su tre giorni sono abituati da vent’anni, e non si sono mai lamentati. Il confronto squadra-tifosi fatto in questi termini è diretta conseguenza di un’errata cultura dello sport. Chi da il diritto a una persona di insultare un’altra persona in pubblico, sul proprio luogo di lavoro, facendo leva sull’intimidazione fisica e verbale? Nessuno, in una società civile. La mentalità Ultras fatica a comprendere che il calciatore è un professionista, e giocare al calcio è il suo lavoro. Sull’operato di questo lavoratore pende il giudizio del suo datore di lavoro, che non è l’Ultras. Il tifoso ha il diritto di esprimere il proprio dissenso, in tanti modi, ma non questo. Che si tratti di Lega Pro o Serie A non fa nessuna differenza. Come non ricordare il caso del derby del 21 marzo 2004 tra Roma e Lazio sospeso dopo la falsa notizia della morte di un ragazzino durante gli scontri tra teppisti e polizia fuori dallo stadio Olimpico.
Hooligans: il caso inglese
Supportare la propria squadra nel modo più attivo possibile, attraverso cori, scenografia, colori, spirito di gruppo, attaccamento alla maglia, alla propria città, alle proprie radici. Tutti elementi che danno una connotazione positiva, quasi poetica del concetto di Ultras. Ma quello che sconfina in una deriva socio-politica traversale, che è di destra e di sinistra, dove l’autoritarismo all’interno del gruppo e all’esterno dello stesso, viene sublimato attraverso la violenza e l’intimidazione, non è né ammissibile, né giustificabile, in nome della mentalità Ultras. La questione è complessa e non può essere risolta solo attraverso la tessera del tifoso (che in definitiva è un mezzo fallimento), né con la decantata imitazione del modello inglese, perché entrano in gioco variabili sociologiche e storiche molto diverse tra loro, perché in Inghilterra negli anni '80 l'allora primo ministo Margareth Thatcher (la Lady di ferro) dopo i tragici fatti dell’Heysel decise che il devastante fenomeno Hooligans dovesse essere affrontato attraverso una serie di regole: dalla ristrutturazione completa degli impianti, al divieto assoluto da parte delle società di intrattenere rapporti con i propri tifosi, fatta eccezione per la collaborazione finalizzata a prevenire possibili incidenti. Nel nostro Paese non si riesce ancora ad evitare che entrino i petardi nello Stadio.
Gli stadi non sono vuoti perché c’è la tessera del tifoso o le pay tv, gli stadi sono vuoti perché non sono concepiti come ciò che dovrebbero essere, ovvero luoghi di intrattenimento. E questo tipo di comportamenti non fanno che allontanare le folle. Le società calcistiche oggi operano in un contesto che si definisce sport business. Non sono né clan, ne tribù. Il modello del calcio è cambiato, sarebbe ora di cambiare anche la mentalità.