Il mio nome è Bonimba
“Riva era il più forte, Bettega il più intelligente. Io il più completo”. Parola di Roberto Boninsegna, per tutti Bonimba. Un soprannome che cambia la storia, che nasce da un'impressione sbagliata. Dalle tribune, Gianni Brera scambia Roberto Boninsegna per un centravanti dalla testa grossa e dalle gambe corte. Lo associa a Bagonghi, il nano acrobata del circo Togni. Da qui nasce Boninsegna-Bagonghi, che diventa Bonin-Bagonghi, che diventa Bonimba. “Mi chiedo spesso quanta memoria del sottoscritto sarebbe rimasta, tra gli amanti del calcio, se invece di Bonimba avessi continuato a chiamarmi semplicemente Boninsegna” ha ammesso. “E quanta memoria sarebbe rimasta se quel soprannome, Bonimba, l’avesso coniato un giornalista qualunque e non Gianni Brera. Sono arcisicuro che la mia storia personale avrebbe preso una piega diversa”. Magari, le sue rovesciate, come quella al Foggia (al portiere Trentin, “altra faccia rubata al cinema di Sergio Leone” scriverà Massimiliano Castellani su Avvenire) che considera ancora il più bello dei suoi 171 gol con la maglia dell'Inter, non sarebbero finite al primo posto nel credo poco religioso di Stefano Accorsi in Radiofreccia. E chissà se Salvatore Nocita l'avrebbe scelto, nel 1989, per la parte del monatto nell'adattamento televisivo dei Promessi Sposi.
Passione di mamma – Il padre, saldatore alla cartiera Burgo di Mantova, giocava terzino nella squadra aziendale. Non era andato in guerra perché veva perso tre dita sotto una pressa, morto a 61 anni per le esalazioni del gas e le polveri, in quegli anni senza mascherina, un litro di latte gratis e via, giocava terzino nella squadra aziendale. Ma la vera tifosa è mamma Elsa, che allo stadio del Mantova si presenta anche all'ottavo mese di gravidanza, e con la levatrice accanto che non si sa mai. Ha un debole per Skoglund e per Lorenzi perché, racconta a Nicola Calzaretta, giocava all'attacco ed era un rompiscatole. Comincia tutto agli Invincibili di Sant'Egidio, due anni senza perdere una partita tra il 1956 e il 1958, e la prima sconfitta arrivata solo per il lancio della monetina, la stessa che dieci anni dopo promuoverà l'Italia in finale all'Europeo. Ma in quella nazionale non c'era Boninsegna: Valcareggi gli preferisce “Pietruzzo” Anastasi. È il primo incrocio nei destini dei due attaccanti, ma non certo l'ultimo. Italo Allodi, complice la bocciatura di Helenio Herrera, frustra il suo desiderio di debuttare in prima squadra all'Inter e lo manda in prestito prima al Prato, poi al Potenza, con un ricatto: o ci vai, o puoi anche smettere di giocare. Ci mette più rabbia del solito, e la squadra sfiora la promozione in A. Poi arriva il parcheggio a Varese: qui debutta in A, proprio a San Siro contro l'Inter (che vince 5-0) e prende una squalifica di 11 giornate dopo una partita in casa contro il Cagliari. “Un difensore devia in tuffo di pugno un mio colpo di testa” ha ricordato. “Per l’arbitro Bernardis di Trieste è calcio d’angolo! Gli dico di tutto, lo spintono anche”. La sospensione viene ridotta di due giornate, e a fine stagione Bonimba arriva proprio al Cagliari. È la svolta. “Giocavo all’ala sinistra, quelli che stavano accanto a me segnavano tanto: Taccola a Prato, Bercellino a Potenza. Poi mi sono detto: contano i goal, adesso li faccio io. E sono diventato più egoista, ho cominciato ad accentrarmi”.
Scopigno e Riva – A Cagliari trova un fratello, Gigi Riva. “Abbiamo diviso per due anni la stessa camera, poi mi sono sposato ma siamo rimasti amici, anche se in campo ci mandavamo spesso a quel paese, questione di temperamento”. Un giorno, Bonimba sale sull'Alfa Quadrifoglio truccata di Rombo di Tuono per un giro verso Villasimius. “Non c’erano le cinture. Curve su due ruote. Il giorno dopo ho fatto l’assicurazione sulla vita” racconta a Gianni Mura su Repubblica. È il Cagliari di Scopigno e del suo leggendario “dispiace se fumo?”, che interrompe una notturna partita a poker in ritiro. “Un allenatore fuori dal comune, un po’ fannullone, tatticamente bravissimo. Non sbagliava mai i cambi, anche perché noi del Cagliari eravamo davvero pochi” ricorda Boninsegna. “Una volta mi sono presentato in smoking all’allenamento del mattino. Arrivavo da Venezia in aereo, dopo il Carnevale. Scopigno mi guarda e dice: ‘Almeno potevi toglierti i coriandoli dai capelli'”. Nell'estate del 1969, il Cagliari ha bisogno di soldi. Gli unici che potrebbero “fare cassa” sono Boninsegna e Riva, che però non vuole andarsene. Bonimba accetta solo in cambio di un trasferimento all'Inter. Affare fatto: a Cagliari arrivano Domenghini, Gori e Poli, e vincono lo scudetto.
Gli anni all'Inter – L'anno dopo toccherà a lui festeggiare il titolo. Per regalare il tricolore alla sua squadra del cuore, segna un gol nel 2-1 al Napoli rischiando la vita, andando a colpire il pallone a tre centimetri dalla scarpa di Dino Panzanato. Vince anche la classifica cannonieri per due anni di fila (1971 e 1972) anche se, ci tiene a sottolinearlo, sarebbe sua anche quella del 1974, andata a Chinaglia, “perché il mio 24° gol al Cesena lo considerarono autorete. Anche di rigori ne avevo realizzati 20 di fila, ma ne segnano 19, perché l’arbitro Michelotti a un minuto dalla fine sospese un Roma-Inter in cui avevo trasformato il 20° e tutti segnati in campionato”.
La lattina di Monchengladbach – Dei suoi anni all'Inter resta anche il “giallo” della lattina di Monchengladbach. Ancora pochi anni fa, alla Bild, l'arbitro di quella partita, l'olandese Dorpmans, ha continuato a sostenere che avesse fatto scena. Di sicuro, il merito di quell'1-7 cancellato dalla storia è soprattutto di Sandro Mazzola. In quegli istanti concitati, Gunther Netzer, stella del Borussia poi proprietario di una discoteca, fa immediatamente sparire la lattina di Coca Cola, lanciata dagli spalti da un operaio 29enne, Manfred Kristein, che i tedeschi tenteranno invano di far passare per tifoso dell'Inter. Ma Sandro Mazzola ne prende un'altra, identica, da una coppia di supporter italiani e la consegna all'arbitro, che la conserverà prima in cantina, poi nel suo armadio della biancheria, prima di donarla al museo della squadra della sua città, il Vitesse Arnhem. Il resto è nell'iniziativa di Peppino Prisco, che ottiene l'annullamento della partita: si deve rigiocare tutta la doppia sfida. L'Inter passerà e arriverà fino alla finale, ma può solo assistere al primo dei tre trionfi consecutivi dell'Ajax di Crujff e del calcio totale.
La nazionale – All'Inter, conquista anche la nazionale. È talmente celebre che i giornali impazziscono, parlano addirittura di un suo flirt con Raffaella Carrà. Ma l'equivoco è presto svelato: un tifoso, desideroso di incontrare Raffa, si spaccia per lui e riesce perfino a invitarla a cena. Non deve nemmeno andare, all'inizio, ai Mondiali del 1970. Finisce per segnare nella partita del secolo e nella finale contro il Brasile più forte di ogni epoca. “Se potessi riavvolgere il nastro, farei di tutto per convincere Valcareggi a far giocare Rivera dal primo minuto: l’anno prima aveva vinto il Pallone d’Oro. E allora, come fai a tenerlo in panchina?”.
La Juve – C'è sempre una staffetta nella sua storia. Nel 1976 va alla Juventus, in cambio proprio di Anastasi, beniamino della tifoseria bianconera. A Torino non tutti sono contenti, ma alla prima sfida contro l'Inter, mettono a marcarlo il giovane Guida: finisce 2-0 per la Juve, con doppietta manco a dirlo, di Boninsegna. “Quando sono arrivato a Torino, non avrei mai pensato di vincere due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia” ha raccontato. “ Le cose, soprattutto nelle due prime stagioni, andarono davvero bene, tant’è che Boniperti mi offrì la possibilità di un quarto anno di contratto, a quasi trentasette anni. Ma, a quella veneranda età, preferì la sicurezza di un posto al Verona, in Serie B, alla certezza di un impiego part-time con i bianconeri”. In quegli anni, scrive Gianni Giacone su Hurrà Juventus, è l'ultimo esemplare “di una generazione di centravanti indomiti, di solidissimo mestiere e coraggio non comune. C’è sempre una spiegazione per il goal anche più illogico: questione di colpo d’occhio, di prevedere anche le più infinitesimali distrazioni dell’avversario diretto o del portiere. Non c’è magia nei goal di Bonimba. Il mestiere del centravanti è duro e senza pietà. Bonimba, ultimo grande guerriero dell’area di rigore, contraddistingue con le sue imprese un’epoca intera”, è l'emblema “di uno stile ineguagliabile”.