Il lato oscuro di Gera: “Fumo, alcol e droga”
Una vita al massimo: è questo quello che verrebbe da dire sentendo la storia di Zoltán Gera, centrocampista ungherese finito agli onori di cronaca dopo essere andato a segno contro il Portogallo nella fase a gironi di Euro 2016, regalando ai magiari quel punto necessario per chiudere il girone in testa, a pari merito con l'Islanda (ma con una miglior differenza reti) e davanti proprio ai lusitani nonché ai sempre temibili austriaci.
E' stato proprio il calciatore magiaro e raccontarsi in un'intervista, diffusa dalla Gazzetta dello Sport e che svela diversi retroscena della vita del calciatore. Nato a Pécs, città al confine tra Ungheria e Croazia conosciuta anche come Cinquechiese, porta un nome molto diffuso nel paese magiaro: Zoltán, che deriva dalla parola turca "sultan", che in italiano è diventata "sultano" ma che significa appunta "sovrano". Un nome, un destino.
"Da piccolo bevevo, fumavo, mi drogavo", ha raccontato, "ero sempre al casinò: non ci sarei potuto entrare fino ai diciotto anni, però passando da una piccola porta ed entravo lo stesso. Volevo diventare un criminale, un padrino, uno temuto da tutti, che deruba e fa sempre risse. Ho iniziato a saltare gli allenamenti, abbiamo formato una gang che rompeva le finestre solo per il gusto di farlo", ha continuato, "e per quattro-cinque anni avevo lasciato il calcio. Spesso interrompevo l'allenamento perché avevo dolore alle articolazioni. Mi fermavo ogni 20 minuti e mettevo acqua fredda sulle gambe, perché mi facevano male le ossa e tutto il resto. Sono fortunato a non essere in prigione o, peggio, morto. Mi sono quasi suicidato, letteralmente".
Parole che hanno dell'incredibile, considerando che oggi il calciatore, dopo aver vestito le maglie di Pécs, Ferencváros, West Bromwich e Fulham, oggi è tornato in patria nuovamente con la casacca del Ferencváros. Ma Gera ha anche spiegato il motivo della sua "conversione". Termino corretto più che mai, visto che è avvenuta grazie alla scoperta della religione. "Un giorno mio padre mi ha portato in chiesa. Ero scioccato dal vedere le persone che sorridevano e cantavano", ha spiegato, "Sulla strada per casa ho chiesto a papà perché erano contenti. Mi ha detto che avvertivano la presenza di Dio e io mi sono sentito bene. Un giorno, tornando da una partita, ho cominciato a pregare, che potessi diventare un calciatore vero", ha concluso. Folgorato sulla via di casa da una messa. Non a caso Pécs, in italiano, è conosciuta come Cinquechiese.
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