Il fair play finanziario oggi è buono soltanto per giustificare ai tifosi i pochi investimenti di mercato
Noi italiani vogliamo l'uovo, la gallina e il culo caldo. Parola di Givanni Trapattoni che, nella vigilia dell'amichevole tra Italia e Irlanda, ha inquadrato a suo modo – ma perfettamente – il mondo del nostro calcio. Tante parole, di circostanza e spesso rassicuranti, ma pochi fatti. Come sempre.
Come nel caso del tanto decantato fair play finanziario di cui molti presidenti di grandi club si stanno riempiendo la bocca nascondendo un'eventuale campagna acquisti deficitaria. L'era del fair-play finanziario effettivamente, sta per decollare – dietro la ferrea normativa voluta dall'UEFA – ma proprio il calcio italiano è ancora in fortissimo ritardo sulla tabella di marcia, proprio quando la stessa Uefa ha deciso di rendere Euro2012 ancora più ricco aumentando i premi partita alle nazionali partecipanti. A denunciarlo non sono gli istituti federali, anzi, ma è il risultato di uno studio privato, la Deloitte, multinazionale dei servizi di analisi, consulenza e revisione che ha elaborato un rapporto sulla situazione complessiva della Serie A. Per nulla edificante.
E' stato realizzato un confronto tra la stagione 2009-10 e quella precedente e l'unico aspetto positivo è che i ricavi sono aumentati del 3,6%, toccando quota 1 miliardo e 736 milioni di euro (di cui ben 52% provenienti dai diritti tv). Se però si guarda all'ultimo triennio il trend crolla vertiginosamente con il calcio italiano indebitato per circa 1 miliardo di euro.
COSTO DEL LAVORO ALLE STELLE – Non a caso, questo sutdio ha messo in risalto come ci sia da registrare però un forte aumento del costo del lavoro: gli stipendi di calciatori, tecnici e dirigenti occupano infatti l'80% del fatturato (un anno prima era soltanto il 74%). E' diminuito invece il valore dei cartellini al momento delle cessioni, come dimostrato dal calo delle plusvalenze (-11%). Insomma, l'autosufficienza economica per i nostri club è ancora lontana: "L’apporto di capitale da parte dei proprietari delle società riveste un ruolo fondamentale nella sostenibilità economico-finanziaria – riporta lo studio – Nonostante un fatturato in crescita l’apporto dei capitali dei proprietari risulta ancora determinante", aggiunge poi Riccardo Raffo di Deloitte. Non a caso, una Roma acquistata da un magnate americano lascia pensare quanti investimenti abbisogni un club top in Italia e come pochissimi imprenditori del Bel Paese ad oggi riescano o possano farlo.
RESISTERE MALGRADO LA RECESSIONE – In pratica sta succedendo proprio quello che non dovrebbe più accadere col fair-play finanziario, introdotto dall’Uefa per spingere i club a sopravvivere con le proprie forze, cioè utilizzando al meglio i diritti tv, gli incassi da stadio, le plusvalenze tra acquisti e cessioni e merchandising. La nota positiva è rappresentata unicamente dalla buona tenuta complessiva del settore calcistico rispetto ad altri comparti economici in tempo di recessione: "I ricavi record registrati dalle leghe calcistiche europee – spiega Dario Righetti, responsabile Consumer business di Deloitte – dimostrano la buona capacità del settore di resistere alle turbolenze economiche".
Una tendenza confermata anche da una ricerca di Stage Up sulle sponsorizzazione sportive: il valore delle sponsorizzazioni calcistiche in Serie A è diminuito solo dell’1,1%, a fronte di un calo del 9.6% in tutti i settori economici. I 20 club della massima serie incassano dalle aziende 220,9 milioni di euro. In particolare Fiorentina, Inter, Juventus, Lazio, Milan, Napoli e Roma raccolgono il 75% del totale, vale a dire 165,4 milioni.
LA SOLUZIONE – Ma il vero fair-play è ancora lontano: per cambiare il trend e ritrovare i ricavi come voce maggiore rispetto a quella delle spese secondo le regole UEFA non basterà rivolgersi alla morigeratezza davanti ad un ingaggio troppo alto o ad una clausola rescissoria. Le vie dovranno essere altre, in primis una ristrutturazione totale degli impianti in cui si gioca, con il passaggio di proprietà ai singoli club e un abbattimento degli investimenti – a fondo perso – verso l'acquisto di nomi di grido o di richiamo senza che si ottengano risultati sportivi e, di conseguenza, introiti nelle casse societarie.