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La morte del calciatore Davide Astori

Davide Astori, cosa resta di un capitano perbene a due anni dalla morte

Il 4 marzo di due anni fa, alla vigilia di Udinese-Fiorentina, moriva Davide Astori. Ha lasciato il ricordo di un calciatore nato per essere capitano, di un uomo perbene, di una persona speciale che riusciva a entrare nel cuore di tutti. I tifosi viola ad ogni minuto 13, come il suo numero di maglia.
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"Tu riesci a entrare nelle persone, e rimanerci". Delle tante parole che da due anni provano a riempire l'assenza per la morte di Davide Astori, quelle della commovente lettera di Badelj restano preziose e dolorose. Lo sono oggi come lo erano il giorno dei funerali, due anni fa. Raccontano perché sia ancora così vivo il ricordo di chi gli ha voluto bene, di sua moglie che lo chiama "il mio unico posto sicuro nel mondo", dei compagni di squadra, degli avversari, dei tifosi, di chiunque ne abbia incrociato il percorso. E perché ancora sia forte il bisogno di condividerlo, come si condivide un abbraccio. Perché quando si muore, si muore soli, ma quando la morte va affrontata, superata, esorcizzata, allora è meglio farlo insieme.

Nato per essere capitano

Era nato per fare il capitano, ha detto Daniele Conti, figlio di Bruno, che l'ha conosciuto ai tempi del Cagliari. Un capitano alla Gaetano Scirea, un architetto prestato al calcio, come si raccontava. Un amico pronto ad ascoltare e aiutare, sorreggere e sorridere, un compagno di squadra che apre la mente. Un ragazzo, un uomo, un padre, che a Firenze, nel ristorante dove andava a cena almeno due volte a settimana, si sedeva in un tavolo d'angolo, non lontano dalla parete dei vini.

Un capitano normale, un uomo perbene. "Tu sei luce" ha scritto Badelj, ma non la luce dei riflettori che distorce e tira fuori il peggio, non la luce accecante da inseguire ad ogni costo per un quarto d'ora di celebrità, una prima pagina in più, o per veder salire il valore di un post su Facebook, di una foto su Instagram. La luce di chi è come appare, e tanto basta a illuminare quella vita lavorata che deve essere strada. E se deve essere strada, ci deve stare chi ci cammina, benché da due anni con una solitudine in più e una guida in meno.

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I cori ad ogni minuto numero 13

La sua luce c'è. C'è nell'aurora boreale che sua moglie fotografa in Finlandia e in qualche modo glielo ricorda, in ogni lacrima di commozione di chi ha giocato ad ogni compleanno non festeggiato, ad ogni quattro marzo. C'è negli applausi e nei cori che salgono dalle curve del Franchi di Firenze ad ogni minuto 13, come il suo numero di maglia. C'è nei tatuaggi di chi ha giocato con lui e porta il suo numero o le sue iniziali sulla pelle per sentirlo più vicino.

Per avvertire ancora la sua forza tranquilla, il calore di un sorriso aperto come porta d'ingresso e protezione insieme di un carattere schivo. Un sorriso come una promessa rivolta a tutti, destinata a pochi. C'è nel logo della sua prima squadra, a San Pellegrino, che ha anche deciso di intitolargli il centro sportivo.

C'è negli occhi di ogni calciatore che in questi due anni sia stato intervistato o abbia risposto a una domanda su di lui. Il coro è unanime, per questo lacerante: parlano tutti di un ragazzo eccezionale, umile, del suo sorriso, del rispetto per i compagni più giovani e per i tifosi. “Era facile volergli bene” ha detto Giovanni Simeone all'Unione Sarda a novembre, “Davide è sempre con me”. Il ritratto di una bella persona, che viene prima dell'ottimo difensore. Una persona che ancora commuove una città abituata a meravigliarsi per l'arte, a godere del bello e custodirlo.

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Un esempio di unione in un calcio diviso

Firenze che ha ammirato Michelangelo e Leonardo, Dante e Machiavelli, Antognoni e Baggio, ha coltivato Astori come si fa con le perle. “Ci ha lasciato in eredità l'idea di essere un popolo unito” ha detto a Esquire Domenico Mungo, storico rappresentante della curva Fiesole e Docente di Storia e Lettere Moderne. L'ha fatto anche in un periodo difficile per la Fiorentina, dopo l'addio di Bernardeschi e la vendita di Marcos Alonsoin cui il tifo finiva per rispecchiare le antiche divisioni che hanno acceso le passioni ai tempi delle fazioni e delle corporazioni.

Tempi che rivivono in un calcio che sta dimostrando di non saper guardare al di là dell'interesse particolare, che pratica l'attacco e l'insulto nella grande piazza virtuale come alternativa anche alla comunicazione istituzionale. Di fronte a una questione più grande, oggi il calcio rimpiccolisce sotto il peso delle contraddizioni, senza freni e senza luci.

Il popolo non più unito del calcio avrebbe bisogno ancora, come prima più di prima, di una luce. Forse per questo, caso piuttosto raro in questa Italia abituata a cancellare le tracce del passato e a vivere di un eterno presente, ad Astori hanno dedicato iniziative, coreografie, striscioni, ma non per dimenticarlo un po' più in fretta. Semmai, per esporre la celebrazione della sua eccezionale normalità e farne la traccia di un diverso futuro possibile.

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Come perdere un amico

Astori è ancora, nella sua assenza riempita di ricordi, una forza che aggrega. Della sua luce ci sarà ancora bisogno nei tempi di contraddizioni e divisioni, per questo oggi Astori c'è e continuerà ad esserci. Perché entra nel cuore delle persone, e chi ci riesce si prende un posto speciale negli angoli dell'anima. Possono farlo anche gli atleti, gli sportivi che fanno emozionare, che diventano familiari anche se non li conosciamo, che ci parlano e in qualche modo sembra ci conoscano. Lontani di fatto eppure parti delle nostre vite, a cui pezzi delle nostre vite si annodano. Distanti eppure vicini, calciatori come Astori diventano di casa, di famiglia.

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La sua morte improvvisa ha toccato tanti non solo per la sorpresa, l'incredulità, l'impreparazione nel vedere la fragilità nascosta sotto un rassicurante fisico da atleta. Non solo per quella domanda, "perché?", ancora senza risposta dopo tre perizie: secondo la procura di Firenze, sarebbe morto per la mancata diagnosi di una cardiomiopatia aritmogena diventricolare (la stessa che uccise il calciatore del Livorno Piermario Morosini). Il lessico medico traduce ma non spiega perché un uomo capace di entrare nel cuore di tutti sia stato tradito proprio dal suo, di cuore.

A due anni di distanza da quel doloroso 4 marzo 2018, non è al calciatore Astori che tifosi e compagni faticano a dire addio. “ É come se fosse venuto a mancare un amico, uno di quelli che vedi tutti i giorni” ha scritto allora un tifoso del Cagliari. Eccolo il senso profondo dell'assenza. Astori è come un amico che ha lasciato il segno nelle vite degli altri senza urlare per invocare attenzione. Un piccolo mondo antico mentre nel nuovo si urla "no al calcio moderno".

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