Da Adcock a Hart, in 70 anni solo 35 britannici in A: storia di un feeling mai nato
Prima di firmare per il Torino, Joe Hart ha telefonato a Micah Richards. “L'Italia è il Paese migliore in cui vivere” gli ha detto, “ma devi abituarti: gli italiani vivono il calcio molto diversamente dagli inglesi”. Così il portiere della nazionale dei Tre Leoni è diventato il ventisettesimo inglese, il trentaquattresimo britannico, a mischiarsi con il popolo che perde le guerre come fossero partite di calcio e le partite come fossero guerre dal 1946.
I pionieri – Mezzo secolo prima, l'Italia ha imparato l'arte del football dagli inglesi. Da Adolf Jourdan, che proprio ha Torino ha organnizzato i primi campionati, da Herbert Kilpin, giocatore e fondatore del Milan, e soprattutto da James Richardson Spensley, il padre del calcio a Genova e in Italia. Personaggio coltissimo, conosce il sanscrito, i geroglifici, tiene conferenze sulla teosofia, è figlio di un pastore evangelico e medico chirugo. Lavora per qualche mese al London Hospital con l'equipe del professor Down, che scoprirà la sindrome che ancora porta il suo nome, e resta a Genova 19 anni dal 1896. Ferito nelle Fiandre nel settembre del 1915, viene portato prigioniero nella fortezza di Magonza, distrutta nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Saranno due tifosi del Genoa, Franco Savelli e Mario Riggio, a rintracciarne i resti nel cimitero militare britannico di Niederzwehren, vicino a Kassel in Germania.
Adcock, il primo pro – Finiti gli anni dei pionieri, il feeling con la Perfida Albione ricomincia, a undici anni dalla Battaglia di Highbury, grazie a Charles Norman Adcock, il primo britannico con un contratto da professionista in Italia, che farà sognare Padova. Erano gli anni di Jesse Carver, Frank Rawcliffe e William John Jordan, ex pilota della Raf, mezzapunta della Juventus che segna cinque gol ma passa più tempo al telefono con la fidanzata Molly a Londra. Non lascia il segno nemmeno Anthony Marchi, 11 gol in due stagioni fra Vicenza e Torino alla fine degli anni Cinquanta.
Law e Baker – La leggenda degli inglesi che non si adattano all'Italia nasce negli anni Sessanta. Gigi Peronace, che oggi diremmo procuratore, porta a Torino Joe Baker e lo scozzese Denis Law, che con Best e Sir Bobby Charlton compone la Trinità dello United con tanto di statua celebrativa all'Old Trafford. Law è più geniale ma come Baker, nato a Liverpool da genitori scozzesi, soffre la disciplina e i ritiri. Baker è un attaccante lineare, che decide il derby con la Juve alla quinta ma non dura molto in Italia. Chiude la sua avventura a Torino, scrive Corrado Sannucci su Repubblica, “con la sua Alfa Romeo contro il monumento a Garibaldi in via Cairoli alle 4 del mattino uscendo da un night, e firmò per l' Arsenal”. In quegli anni non se la passa meglio Jimmy Greaves che vuol godersi la vita a Milano: segna 9 gol in 10 partite e poi scappa per divergenze con Nereo Rocco.
Bomber Hitchens – Eppure, c'è chi in quegli anni in Italia scrive la storia. È Gerry Hitchens, il britannico che ha segnato di più in Serie A. Certo, il tempismo non è il suo forte. Helenio Herrera lo taglia un attimo prima del decollo della Grande Inter, va a Cagliari nel 1967 per sostituire Riva infortunato, resta due anni e decide di tornare in patria nell'anno che avrebbe portato allo scudetto. Morirà a 48 anni di infarto, durante una partita di beneficienza.
Francis, bello e fragile – Proprio la disfatta nella Perfida Albione contro la Corea del Nord del nient'affatto dentista Pak-doo-Ik convincerà la FIGC a chiudere le frontiere, riaperte solo dopo il trionfo bearzotiano al Bernabeu e lo scopone in aereo con Zoff e Pertini. Finito il Mondiale, parte dal Manchester United direzione Sampdoria Trevor Francis, per Fabio Capello il britannico più forte mai visto in Italia. Bello e fragile, aveva giocato nel Nottingham Forest di Brian Clough ma per Don Revie “poteva rompersi un piede anche solo scendendo dal letto. Segna 17 gol in tre anni poi dopo una stagione incolore all'Atalanta torna in Scozia.
Luther "Miss It" – Intanto, nel 1983, al Milan arriva Luther Blissett, detto Miss It, sbaglialo. Un nuovo Calloni, lo definisce Gianni Brera, una Sciagura, un bidone che diventa fenomeno pop e ispira il gruppo di artisti diventati poi Wu Ming. Il Milan ci riprova con Mark Hateley, ma in tre anni di lui si ricorda solo quel colpo di testa su Collovati che fa vincere ai rossoneri il primo derby in sei anni. In quel Milan, ancora con Giussy Farina presidente, era “The Razor” Ray Wilkins, 105 presenze in rossonero, a distribuire il gioco.
Arriva Platt – La riapertura delle frontiere allarga anche alla provincia il fascino dello straniero. A Bari arrivano prima Gordon Cowans e l’attaccante girovago Paul Rideout, entrambi ripartiti dopo una stagione (stesso finale avrà la deludente esperienza a Pisa di Paul Elliott), poi David Platt. Come i due predecessori giocava nell'Aston Villa, dove pare si dilettasse in scherzi telefonici. Centrocampista totale, deve ringraziare il gol al Belgio a Italia '90 per un passaggio che gli ha cambiato la vita. Appassionato di cavalli e snooker, latinista mancato, alla Juve, già terra di conquista gallese col Gigante Charles e trent'anni dopo con il baffuto Rush, diventerà il Tardelli di Chadderton. Alla Sampdoria vincerà una Coppa Italia e farà dimenticare Des Walker.
La stella di Gazza – Anche Paul Gascoigne avrebbe voluto che le notti magiche non finissero mai. In Italia tornerà, dopo la delusione mondiale, un anno dopo, alla Lazio, anche se se si è rotto un ginocchio in finale di FA Cup. Debutta dopo 16 mesi, il 27 settembre 1992 contro il Genoa. A novembre segna un gran gol nell'amichevole contro il Siviglia per il ritorno in campo di Maradona. Mancano 19 giorni al suo primo derby con la maglia della Lazio. Al minuto 89, la Roma è ancora in vantaggio per 1-0. Ma c'è ancora una chance. Tempestilli ha steso Fuser, Signori batte la punizione e Gascoigne si arrampica più su di Benedetti. È il suo primo gol in campionato per la Lazio e vale molto di più del quinto 1-1 consecutivo nella storia del derby. La sua corsa rabbiosa, sanguigna sotto la Nord cancella una prestazione anonima e scrive un destino diverso. E piange, ma stavolta di gioia, nell'abbraccio dei compagni e dei tifosi. «Quella corsa, finita in un pianto, è servita per scaricarmi dalla gioia per aver evitato la sconfitta – spiega –. Quando si esce da un incubo è lecito anche piangere, no?». Purtroppo, l'esperienza alla Lazio gli riserva solo altri cinque gol e un altro pianto, di nuovo di dolore, quando un giovanissimo Alessandro Nesta in una partitella d'allenamento gli rompe tibia e perone. E il resto è storia.
Ince e Beckham – Quella degli inglesi in Italia, invece, prosegue con pochi veri idoli e troppi flop. Milano, la più europea delle città italiane, accoglie prima “The Governor”, Paul Ince, che porta l'Inter fino alla finale di Coppa Uefa e ai dolorosi rigori contro lo Schalke. Poi si ricrede sul valore tecnico dell'operazione Beckham: lo Spice Boy al Milan non è solo una comparsa.
Ultime meteore – Passano senza lasciare il segno invece Lee Sharpe, quattro mesi alla Sampdoria, o Franz Carr, sei partite alla Reggiana prima di tornare al Bolton. Solo gli almanacchi si ricordano di Daniele Dichio, due gol in sei partite fra Samp e Lecce, o di Jay Bothroyd, scommessa persa del Perugia di Gaucci. Ashley Cole è arrivato troppo bolso per legare con la Roma, Ravel Morrison troppo giovane per esplodere alla Lazio. Richards, che ha convinto Hart, è semplicemente troppo ossessionato dal calcio per accettare di essere messo in panchina. Per questo, nonostante la sua aria rinascimentale come ha scritto Matthew Lowton per il Daily Mail, e l'amore per Firenze, è durato solo una stagione. Come tutte le più belle cose.