Cinque cose da sapere su Dzeko, diamante bosniaco della Roma
“Fare gol è la parte migliore dell'essere calciatore”. Una parte che Edin Dzeko, capocannoniere della Serie A conosce benissimo. Suoi i 26 gol che hanno spinto il Wolfsburg a uno storico Meisterschale, insieme ai 28 di Grafite: insieme hanno composto la coppia più prolifica di Bundesliga, battuto il record di Gerd Mueller e Uli Hoeness che resisteva dal 1972-73. “E' il tipo di attaccante che tutti vorrebbero avere” diceva, e non c'è da stupirsi, il suo tecnico di allora, Felix Magath. Diventerà poi il primo giocatore del Manchester City a segnare quattro gol nella stessa partita, al Tottenham, nella stagione 2011-12. C'è tutta la completezza del suo repertorio in 90′: segna di destro, di sinistro, di testa.
Lo chiamano "Diamante di Bosnia"
Anche per questo, dopo un notevole destro a giro al Belgio nel 2009, il telecronista serbo-bosniaco Marjan Mijajlovic ha iniziato a chiamarlo “Bosanski dijamant”, “diamante di Bosnia”. Quando torna a Sarajevo, può ancora girare per le vie del centro, e magari fermarsi a mangiare un burek insieme ai compagni di squadra-. L'8 settembre 2012, Dzeko è entrato definitivamente nella storia della nazionale: è diventato il bomber più prolifico nella storia dei Dragoni. Le quattro reti nell'8-1 al Liechtenstein gli fanno superare il primato precedente di Elvir Bolic. Due anni dopo i 10 gol nel percorso di qualificazione avrebbero condotto la Bosnia per la prima volta alla fase a gironi dei Mondiali. È il culmine di una storia iniziata in nazionale il 2 giugno 2007, contro la Turchia, con una splendida volée che aiuta a firmare la rimonta da 1-2 a 3-2. Si gioca all'Olimpijski stadion Koševo, oggi dedicato alla leggenda dell'FK Sarajevo Asim Ferhatović Hase, teatro della cerimonia d'apertura delle Olimpiadi invernali del 1984, le prime nella Cortina di ferro. Dzeko ricorda le mitragliatrici che rimbombavano dalle colline intorno allo stadio. “Portateli all'orlo della pazzia” gridava il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic ai cecchini che hanno ucciso circa 10 mila persone: 1200 erano bambini dell'età del piccolo Edin.
È un figlio della guerra
Aveva sei anni Dzeko quando la guerra arriva nella sua Sarajevo. “E' stato un momento durissimo per tutti” ha detto. “Non c'era molto da mangiare e avevamo paura, tutto i giorni. Dovevamo sempre correre a nasconderci quando scoppiavano le bombe o sentivamo i colpi dei fucili. Ho pianto molto in quei giorni: sapevo che avrei potuto essere ucciso in ogni momento”. Ma la sua famiglia non scappa, come fanno tanti, così Edin si ritrova a vivere con altri 12 parenti nel seminterrato del nonno, con una sola camera da letto. Il 1993 è un anno simbolo. L'FK Sarajevo è la prima squadra bosniaca a disputare un match internazionale, un'amichevole a Teheran contro la nazionale iraniana (vincerà anche 3-1). In un giorno di quello stesso anno Edin vuole andare a giocare del campetto della sua mahala, il quartiere popolare di Otoka che non ha mai abbandonato. Mamma Belma, che ha visto morire molti familiari e perso casa, ha una strana sensazione alla bocca dello stomaco e chiede a Edin di non andare. Il figlio di malavoglia obbedisce. Dopo pochi minuti, tre granate si abbattono sul campetto: quel giorno Dzeko perde tanti amici. “La guerra ha reso Edin estremamente forte dal punto di vista mentale”, ha raccontato a So Foot Muhamed Konjić, uno dei primi giocatori ad avere indossato la maglia dei Dragoni dopo la fine del conflitto.
E' il primo bosniaco ambasciatore dell'Unicef
In Germania, Dzeko diventa molto amico di Misimovic. Un rapporto che avrebbe dovuto essere indagato in un documentario di Haris Pašovic, il direttore di un teatro a Sarajevo conosciuto per aver prodotto una versione di Aspettando Godot con in scena Susan Sontag. “Dal modo in cui si parlano si capisce quanto siano vicini, si capisce la profondità del rispetto e dell'amicizia” ha detto Pašovic, che non ha trovato i fondi per il suo progetto. “Il loro legame è molto importante per la Bosnia, dà a tutta la nazione un'immagine più nobile, più umana e ne abbiamo tanto bisogno”. Un'immagine che Dzeko rende ancora più intensa: è il primo bosniaco ambasciatore dell'Unicef. “Provo a fare qualcosa per produrre un cambiamento” ha detto. “Vado a parlare nelle scuole in Bosnia dove c'è ancora molto da fare. Cerco di mostrare ai bambini che non è importante come si chiamano o se siano musulmani, cattolici oppure cristiani ortodossi”.
Zeljeznicar: venderlo è stato come vincere alla lotteria
“Dzeko è un grande non solo per i traguardi che ha raggiunto, ma per tutto il suo viaggio. È rimasto qui, ha condiviso l'esperienza della guerra con tutti i connazionali” ha detto Muhamed Konjic, il primo capitano della nazionale e ora uno dei più apprezzati commentatori della televisione. “L'abbiamo visto diventare un campione conosciuto in tutto il mondo, ma è rimasto lo stesso ragazzo genuino di sempre: è questa la bellezza della sua grandezza”.
Eppure nel 2003, quando giocava nello Željeznicar Sarajevo, tradizionalmente la squadra degli operai delle ferrovie, in pochi intuivano e riconoscevano il suo talento a parte il tecnico, il ceco Jiri Plišek. “Aveva l'approccio mentale dei giocatori speciali” ha detto. “Volevo che mostrasse più tenacia, così lo mettevo in seconda squadra e i genitori protestavano. Ma lui ha capito e ha mostrato la sua forza interiore”. Così, quando è tornato in patria all'FK Ústí nad Labem, Plišek impone di prendere Dzeko: se il club non avesse voluto sborsare i 25 mila euro che servivano, ha detto, li avrebbe sborsati di tasca sua. Per lo Zeljeznicar, ha spiegato un membro del board del club allora, venderlo è stato come vincere alla lotteria. Viene poi promosso al Teplice, in prima divisione, e gli offrono di prendere la nazionalità ceca, ma declina. “Non tutti, quando arrivano al punto di dover scegliere cosa fare del proprio futuro, capiscono che la gloria e i soldi non sono tutto” ha detto Plišek al Guardian. “Dzeko così facendo ha mandato un messaggio ai genitori, ai bambini, alla sua nazione. Ha risposto alla domanda ‘chi sono io?'. È così che sono fatti i grandi giocatori”.
Il suo idolo è Shevchenko
In quei primi anni, giocava da ala destra, da numero 7. Ma già segnava tantissimo così hanno deciso di spostarlo come centravanti. Ha continuato a segnare in tutti i campionati, Bundesliga, Premier e Serie A, che da piccolo guardava più di tutti. Il suo idolo di allora era Andriy Shevchenko. “Per me era il migliore in tutti i sensi” ha detto al sito della Roma. “Forse il primo ricordo che ho di lui è la tripletta che segnò al Camp Nou in Champions League in un Barcellona-Dinamo Kiev finito 0-4 nel 1997-98”. Era il primo Barcellona di van Gaal, travolto nel primo tempo dai due colpi di testa di Sheva su errori di Vitor Baia e dal rigore che completa la tripletta. Da attaccante, ha affrontato “tantissimi grandi difensori”, ma il più duro, ha spiegato, rimane Sergio Ramos. Ha avuto la fortuna di giocare accanto a grandi campioni, ha aggiunto. “Probabilmente il più forte è David Silva. Non a caso lo chiamavamo “The Little Magician”. Fa delle cose incredibili con i piedi. Ogni palla che riceve non ha problemi a controllarla e a ridartela”. E fare gol, la parte migliore dell'essere calciatore, diventa più facile. Ma non per questo meno bello.