Brasile 2014: Vidal e le geometrie variabili del Cile al Mondiale
Il Cile ha un rapporto intimo con le catastrofi. Una nazione sulla linea di faglia, in cui la provvisorietà diventa filosofia di vita. Ogni cileno ha vissuto almeno un terremoto, e altri li ha sentiti raccontare dai familiari. Spesso i disastri hanno coinciso con grandi eventi pubblici. Un mese fa un incendio ha devastato Valparaiso mentre Michelle Bachelet iniziava il secondo mandato presidenziale. Nel 2010 il Cile festeggiava il bicentenario e un sisma di magnitudo 8,8 ha distrutto metà del paese. Nel 1962 un terremoto ha messo in serio pericolo l'organizzazione dei mondiali di calcio, in cui la nazionale ha ottenuto il miglior risultato della sua storia. Non è un caso, allora, se nelle ultime stagioni il Cile si è innamorato di giocatori e di allenatori un po' visionari, che superano i concetti stabili, i ruoli definiti, in nome delle architetture fluide. Si è innamorato di Bielsa, del suo discepolo Sampaoli e di Arturo Vidal.
Il tuttocampista Vidal – Vidal è il moderno “tuttocampista”: è difensore, mediano di rottura, trequartista, goleador, è il giocatore che in Italia somiglia di più a Yaya Toure, il centrocampista box-to-box architrave degli scudetti del Manchester City. Figlio di genitori separati, secondo di sei tra fratelli e sorelle, ha passioni semplici e un temperamento artistico: si diletta col barbecue e le corse dei cavalli, è anche proprietario di una scuderia in Cile, ha sempre “un'idea per la testa”, è questo il nome del locale dove va a farsi l'imitatissimo taglio di capelli, e si disegna i suoi tatuaggi (che poi realizza Cristiano Di Fiore a Savigliano), come il nome del figlio Alonso e del nipote Arturo che porta scritti sulle braccia. È legatissimo alla mamma Jacqueline, che chiama “Guerrera” perché, dice, “ha saputo allevare i suoi figli con sani valori”. È per lei che decide di diventare calciatore. “Una sera vidi arrivare a casa mia madre stanchissima dopo una giornata di lavoro. In quel momento mi sono detto che avrei fatto di tutto per giocare a calcio e guadagnare abbastanza denaro da non farla più lavorare”. Inizia nel Rodelindo Roman, la squadra del suo quartiere, San Joaquin, una zona violenta di Santiago, da difensore. Da lì passa al Deportes Melpilla e al Colo Colo di coach Claudio Borghi, l'allenatore cui deve di più. Lo fa esordire in prima squadra nella finale d'andata per lo scudetto del Torneo Apertura 2006 che vincerà battendo ai rigori l'Universidad de Chile. Al Colo Colo vince tre titoli di fila e arriva in finale di Copa Sudamericana nel 2006. Gioca sia come terzino in una difesa a quattro composta da Henrìquez, Riffo, Ormeno davanti al portiere Cejas, sia come centrocampista insieme a Matìas Fernandez, Gonzalo Fierro, Sanhueza e Melendez dietro la coppia d'attacco Humberto Suazo-Alexis Sanchez. Nel 2007 è la rivelazione del Sudamericano under-20: il Cile finisce quarto, il “Guerriero” è vice-capocannoniere con 6 gol dietro Cavani. Quell'estate trascina la Roja al terzo posto nel Mondiale under-20 in Canada e cambia la sua vita. Si trasferisce in Germania, al Bayer Leverkusen: in quel momento è il giocatore cileno più pagato di sempre. Nei primi due anni le Aspirine deludono (un settimo e un nono posto, una finale persa in Coppa di Germania), poi arriva Heynckes e cambia tutto. Il Bayer resta imbattuto per 24 partite, chiude in testa il girone d'andata e finisce quarto. Bielsa lo convoca per i Mondiali in Sudafrica e lo fa giocare in tutte le quattro partite della Roja. Il suo arrivo alla Juve convince Conte a cambiare filosofia di gioco. In bianconero segna la sua prima doppietta in Europa ed è l'unico insieme a Vucinic in gol in tutte le competizioni nella stagione scorsa. Quest'anno diventa il primo cileno, e il terzo juventino, a firmare una tripletta in Champions League.
Vidal e la nazionale – Dopo la Copa America del 2011, il legame tra Vidal e la Roja si spezza. È proprio Borghi, il coach a cui deve di più, che una volta diventato ct della nazionale lo punisce perché si è presentato con tre quarti d'ora di ritardo in ritiro e in condizioni “non adeguate”. La Federcalcio cilena lo squalifica per dieci partite, poi ridotte a cinque. È intorno a lui che girano le geometrie variabili del “bielsista” Jorge Sampaoli. Quando allenava l'Universidad de Chile, che ha portato al suo primo trofeo internazionale in 84 anni di storia, ha provato: il 4-4-2 classico, il centrocampo a rombo, il 3-4-3, il 3-3-1-3, uno strano 3-1-4-2 e un ancor più improbabile 3-1-3-1-2. Un multiforme ingegno al servizio di una nazionale che, come il suo popolo, è abituata ai cambiamenti, alle ricostruzioni, ad adattarsi alle situazioni senza cercare certezze di lungo periodo.
Il terremoto e la battaglia di Santiago – “Non abbiamo niente, perciò faremo tutto per ricostruire”. È lo slogan non ufficiale dei Mondiali del Cile del 1962. È la frase con cui Carlos Dittborn, presidente del comitato organizzatore, ha lanciato un'operazione colossale dopo che, il 22 maggio 1960, il più violento terremoto mai registrato (magnitudo 9.5) aveva devastato la nazione. Dittborn morirà un mese prima dei Mondiali: ancora oggi lo stadio di Arica, una delle sedi del Mondiale, porta il suo nome. Ma non è il successo della ricostruzione a passare alla storia. È la Battaglia di Santiago, che il commentatore della BBC David Coleman ha presentato come “l'esibizione di calcio più stupida e disgustosa di sempre”. Nella seconda partita del girone, il Cile affronta l'Italia guidata da una curiosa commissione tecnica composta dall'allenatore federale Giovanni Ferrari e da Paolo Mazza, il presidente della Spal. Doveva esserci anche Nereo Rocco, già in Brasile per conto del Milan, che sarà escluso dopo aver sparato a zero sul loro conto in una lettera inviata a Gianni Brera e pubblicata sul Giorno. L'Italia arriva con il primo volo Alitalia che sia mai atterrato a Santiago del Cile, su un aereo tutt'altro che stabile. Mazza e Ferrari cambiano sei undicesimi della squadra che all'esordio ha pareggiato con la Germania di Herberger. La vigilia è infuocata. Prima del Mondiale, Ferrari e Gigi Scarambone, addetto stampa della Lega, erano già stati in Cile per curare pubbliche relazioni e distribuire distintivi e gagliardetti. Alla vigilia del debutto, però, i cileni sfruttano l'inchiesta di Corrado Pizzinelli sulla Nazione e Il Resto del Carlino, e i reportages di Antonio Ghirelli sul Corriere della Sera. Ghirelli scrive articoli di colore ma le agenzie di stampa tedesche, poi rilanciate da tv e radio del Cile, riportano solo i brani in cui parla delle prostitute minorenni e dei “morti di fame”. I giornali locali, a quel punto, orchestrano una campagna stampa contro l'Italia e l'uso degli oriundi. Italia-Cile è una caccia all'uomo arbitrata da Ken Aston, che Brera definirà una "ineffabile carogna inglese". Aston, l'arbitro che inventerà i cartellini gialli e rossi, perdona gli aggressori e punisce le vittime italiane. Non fa nulla quando Sanchez rompe il naso a Maschio ma espelle Ferrini che cerca di colpirlo senza nemmeno riuscirci dopo 12′. “Io intervenni duro su Sanchez che non voleva mollare la palla che gli era stata passata dal portiere Escuti e la teneva con le due gambe” ha raccontato David. “Per colpire la palla, colpii anche lui. E lui rialzandosi, mi mollò un cazzotto, ma l'arbitro fece finta di nulla. Dopo feci un'entrata a gamba tesa su Sanchez ina in azione di gioco e lo colpii alla spalla, però lo spudorato Aston mandò via anche me”. Il Cile vincerà 2-0 e molti anni dopo Aston si scuserà per quell'arbitraggio.
L'eroe Caszely – Il “rosso” ha scandito la storia mondiale della Roja e del re del metro quadro, Carlos Caszely. El rey del metro cuadrado, il primo giocatore a cui sia stato mostrato un cartellino rosso ai Mondiali, è un eroe nazionale, non solo un aneddoto nello zibaldone iridato. Quando gioca nelle giovanili del Colo Colo, sostiene Unidad Popular, la coalizione di centrosinistra di Salvador Allende. Nel 1973 è capocannoniere della Copa Libertadores e partecipa alla campagna elettorale per la rielezione di due parlamentari del Partito Comunista cileno. Il sogno di Allende, che si farà fotografare accanto a Caszely, dura fino all'11 settembre 1973. Dopo il golpe militare, Augusto Pinochet trasforma l'Estadio Nacional di Santiago in un lager. Operai, studenti, artisti, chiunque sia sospettato di simpatie comuniste vengono portate nel simbolo del calcio andino trasformato in simbolo di morte: in migliaia sono fucilati, altrettanti spariscono nel nulla. Qui il 21 novembre il Cile deve giocare il ritorno dello spareggio per la qualificazione ai Mondiali contro l'Urss. All'andata, grazie all'eccellente prestazione dei difensori Quintano e Figueroa, finisce 0-0. I sovietici si rifiutano di giocare in quello stadio, ma il regime organizza una parata davanti allo stafio stracolmo. Il Cile scende in campo senza avversari. Il copione è già scritto: al fischio d'inizio, tutti i giocatori dovranno passarsi la palla e il capitano Francisco Valdes, anche lui simpatizzante di Allende, deve segnare a porta vuota. Caszely pensa di buttare la palla fuori, ma gli manca il coraggio. È l'ultima volta che dico sì, promette. Alla vigilia dei mondiali è l'unico della rosa che non stringe la mano a Pinochet. Aumenta la sua fama di Rojo, di “rosso”: mentre gioca in Spagna, la polizia politica arresta sua madre, che viene torturata per settimane. Un “rosso” mette fine alla sua avventura mondiale dopo 67′ contro la Germania Ovest. La stampa di regime scrive che si sia fatto espellere apposta per non affrontare i comunisti della Germania Est. Non giocherà più in nazionale per cinque anni, e c'è chi dice che le simpatie comuniste gli siano costate il trasferimento al Real Madrid. Otto anni dopo torna in nazionale, per il Mundial di Spagna, e sbaglia il rigore contro l'Austria che condanna il Cile all'eliminazione: anche stavolta c'è chi scrive che l'abbia fatto apposta. Rimane il terzo miglior cannoniere della Roja di tutti i tempi, dietro Salas e Zamorano, ma sono i suoi errori che fanno più rumore. Nel 1985, da ex calciatore, saluta Pinochet alla Moneda, ma ancora non gli stringe la mano. Ha una vistosa cravatta rossa. “La porto sempre” dice al dittatore, “la porto dalla parte del cuore”. Nell'autunno del 1988 milioni di cileni devono scegliere tra la dittatura e la democrazia. Il “no” ha pochi spazi in radio e in tv, ma fa la differenza con la forza del messaggio e l'idea di futuro. Uno degli spot chiave ha per protagonista una donna sulla sessantina, con i capelli tinti, seduta su un divano a fiori. È Olga Garrido, si legge nel sottopancia. “Sono stata sequestrata e picchiata brutalmente” dice. “Le torture fisiche sono riuscita a cancellarle, quelle morali non posso dimenticarle. Per questo io voterò No”. L'inquadratura si allarga su un uomo dal volto rotondo con grandi baffi neri, sulla parete spicca il gagliardetto del Colo Colo. “Anche io voterò no” dice sorridendo. “Perché i suoi sentimenti sono i miei. Perché questa donna meravigliosa è mia madre”. Perché quell'uomo è Carlos Caszely e 15 anni prima aveva promesso che non avrebbe detto sì mai più.