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Berlino 2006 – Bordeaux 2016: cosa resta di un sogno Mondiale

Sono passati dieci anni dalla notte di Grosso e Materazzi. Dalla testata di Zidane e dal cielo azzurro sopra Berlino. Da Lippi a Conte, nel segno di Buffon e Barzagli. Quando il calcio all’italiana dà il meglio di sé. E il Paese si unisce intorno alla maglia azzurra.
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Dalla Berlino a Bordeaux. Dalla Francia alla Germania. Da Lippi a Conte. Da un sogno mondiale a un europeo di applausi, ricordi e rimpianti. Un cerchio lungo dieci anni. “Un mondiale perfetto perché brutto, storto e contorto” quello del 2006, scriveva Vittorio Zucconi su Repubblica. L'estasi di un calcio italiano che da molto tempo ormai ha smesso di essere il più bello del mondo ma in quell'estate rischiava di diventare il più inquinato del mondo. È l'Italia che si desta dopo gli scandali e le truffe, come nel 1982, l'Italia di Pablito che risorge dopo la squalifica, di Lippi che nessuno voleva più alla vigilia della partenza e al ritorno nessuno voleva più vedere andare via.

Da Lippi a Conte – La stessa parabola di Conte, troppo juventino, troppo coinvolto anche se assolto nel Calcioscommesse perché i tifosi lo vedessero come il tecnico ideale. Gli sono bastate 25 partite, però, perché l'Italia per un mese si colorasse d'azzurro, per amor di patria e onor di sponsor, perché i rivoluzionari tornassero pompieri. E non è certo una novità. Conte saluta dopo quattordici vittorie, sette pareggi (compreso il quarto con la Germania al 120′) e quattro sconfitte. Ha preso l’Italia dalle macerie di Brasile 2014 e l'ha portata fra le prime otto d'Europa. E chissà che sarebbe successo senza il contropiede di Perisic all'ultimo secondo contro la Spagna nell'ultima gara del girone. A Conte si può imputare poco, quasi nulla, forse solo i cambi nei supplementari contro la Germania, e non perché Zaza poi il rigore lo sbaglierà: perché ha aspettato l'ultimo secondo, l'ultimo prezioso tentativo di stupire ai rigori e non ha provato del tutto a vincerla prima del minuto 120. Dettagli, quisquilie, in un biennio di transizione per Conte e per l'Italia, per una nazionale povera, e gli infortuni di Marchisio, Verratti e De Rossi non hanno certo aiutato, e un tecnico che ha provato a trasformare la nazionale in un club.

Il mestiere di vincere – “A Coverciano sono felice, ma so che farei fatica a stare tanto tempo in garage: senti il profumo della macchina, delle gomme, dell’olio del motore, non quello dell’erba del terreno di gioco” diceva quando il suo trasferimento al Chelsea è diventato di dominio pubblico. Non ha cancellato la “lateralità” di una Nazionale vissuta come un peso dai club, Europei e Mondiali esclusi. “Mi sono ritrovato solo contro tutti” ha detto al passo d'addio. Ma l'ha fatta giocare, questo sì, come una squadra affiatata, come la sua prima Juventus. Altro non si poteva fare. Con la sua “ossessione maniacale per la vittoria”, parole sue, Conte ha restituito dignità al calcio all'italiana, quello che per Gianni Brera giochiamo in quanto fisicamente inferiori ai popoli che vivono e poggiano sull'epica del passing game.

Perché una nazione, e una Nazionale, gioca a calcio per com'è. Svaporata l'utopia del bel calcio prandelliano, il Bel Paese è tornato alle basi, alla storia, sulla strada della fisicità, della difesa, dello spirito di squadra. Tradito da quel che teme di più (come si legge nel Metodo Conte di Alessandro Alciato), da un gesto individuale, un peccato di insicurezza e troppa umanità, che ha messo in pericolo il lavoro di tutti. "Conte è stato un condottiero, una persona splendida – gli riconosce il presidente Tavecchio – all'epoca per ingaggiarlo feci uno sforzo immane, ma poi mi sono anche reso conto che sarebbe stata dura mantenerlo. Con lui abbiamo costruito qualcosa di importante. La nazionale era una bandiera dimenticata. Ora non è più così".

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2006-2016 – Era così anche dieci anni fa, quando la Federal Reserve alzava i tassi per l'ultima volta e l'Italia sfoggiava un pil in aumento dell'1,9% e la disoccupazione al 6,8%. In quel 2006 Renzi aveva 31 anni e rilasciava la sua prima intervista a Time, c'erano anche anche Gianni Letta e altri politici emergenti. “Non chiedo spazio perché ho trent’anni, chiedo spazio perché ho idee nuove. E credo di avere idee nuove perché ho trent’anni”. E ai vecchi politicanti chiedeva: “Dov'è il coraggio? Dov'è la passione?”.

Erano tutte sotto il cielo azzurro di Berlino la sera di quel 9 luglio, in quella notte mai così magica dal Bernabeu e dagli applausi di Pertini. C'era sempre la Germania, c'entrava anche allora un rigore sbagliato, stesso modo e stesso angolo di Pellé, ma il finale non cambiò e non ci ripresero più. È la notte che defnisce e definirà i ricordi sportivi di una generazione, che divide quelli che han vissuto il Mundial di Bearzot e dello scopone e quelli in piazza per Cannavaro. Quelli dell'urlo di Tardelli e quelli della corsa di Fabio Grosso nel trionfo di Dortmund.

La notte di Grosso – Grosso che spiazza Barthez nell'ultimo rigore della serie, e non chiamiamola più lotteria che la scienza, la preparazione, contano molto più dell'azzardo, e trasforma una partita di sacrificio e sofferenza nel racconto epico di una redenzione. Fu la notte delle parate di Buffon e del gol di Materazzi, di una difesa che non prende un solo gol su azione in tutto il Mondiale. La notte della testata di Zidane, della traversa di Trezeguet e dei rigori perfetti degli azzurri: Pirlo, Materazzi, De Rossi e Del Piero, prima dell'eroe per caso con le mani sulla Venere alata.

Una notte di coppe e di campioni, “la riscoperta di un nazionalismo senza nazione, di un patriottismo senza patria, di un'etica senza morale” scriveva Giorgio Bocca. Quella notte, quel 9 luglio che per gli italiani non sarà mai un giorno come un altro, si completa la palingenesi di un movimento intero, il trait-d'union ideale che crea lo spirito dell'Italia di Conte.

Il Conte allenatore – Dieci anni dopo, solo Buffon e Barzagli c'erano ancora nella sera delle lacrime di Bordeaux, contro la Germania del “Grosso del 2016”, Jonas Hector, terzino sinistro pure lui, senza profili sui social network che fino a quattro anni fa giocava in quarta serie. Due pilastri di continuità in una Nazionale che ha cambiato molti volti da allora, che ha ritrovato dopo una decade di esperimenti la natura più antica e duratura del nostro spirito pallonaro.

Grazie a una guida che, scrive ancora Alciato, “non è solo un allenatore, ma prima di tutto è un allenatore”. Non un selezionatore alla Vicini o alla Bearzot, ma un uomo di campo che si nutre di schemi e di regole, di parossistica fatica quotidiana, non da stage nei ritagli di tempo. Un allenatore alla Sacchi, che come lui ha diviso e divide chi guarda da fuori, ma unisce chi vive da dentro in una identificazione totale fra squadra e ct.

Spirito di squadra – È questo che più di tutto rimane, da Berlino e da Bordeaux, dalla Francia alla Germania, da Grosso a Pellè. Un simbolo di nuovo condiviso, nel segno del meglio che l'Italia ha regalato all'evoluzione delle idee del calcio. Un'eredità da consegnare all'artefice della ricostruzione, Giampiero Ventura. Una squadra che è già, e ancor di più sarà (con Romagnoli da inserire, Verratti e Marchisio da recuperare) più della somma delle parti. Un gruppo che più di tutti conosce la differenza fra perdere come singoli e vincere come squadra. A dieci anni da Berlino, è questo che rimane. E non si può chiedere niente di meglio. Niente di più.

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