Andreotti: tifoso della Roma e fautore delle Olimpiadi del 1960 (VIDEO)

"Nel calcio ho fatto una lunga carriera, non come giocatore, perché ero una schiappa, ma come tifoso. Dagli alberi al campo di Testaccio, sono finito alla tribuna d'onore". Lapidario, moderato, efficace anche quando si parlava di calcio e della sua Roma. Giulio Andreotti ne è stato tifoso fin da ragazzino e, quando ha potuto, non ha lesinato interessi particolari al club capitolino. Da sempre? Quasi. Perché la leggenda popolare riconduce a quando Franco Evangelisti, allora segretario regionale della Dc, si mise in testa di rilevare la società allora nelle mani del conte Francesco Marini Dettina. Faccenda delicata, che il ‘divo Giulio' accolse con estrema cautela perché l'umore della folla, soprattutto dei tifosi, è mutevole e nelle piazze del pallone basta un gol al 90′ per rovesciare idoli e voti. Evangelisti restò fino al 1968: altra pasta, altri tempi scanditi subito dopo dai palazzinari e dagli industriali. E la Dc e Andreotti erano sempre vicini. Passavano i presidenti e assieme a loro facevano piroette anche i bilanci. Pure quelli sul campo: in undici metri può passare tutta una vita. A un giornalista che faceva domande indiscrete sulla sua fede calcistica rispose così: "Lei mi chiede della Roma e io le dico che il finale è già scritto: ai tramonti seguono sempre le albe". E lui, Andreotti, aveva visto molte lune (e molti soli) abbastanza da sapere dove sorgesse il futuro.
Dai palazzinari a Viola. Erano i tempi di Alvaro Marchini, Gaetano Anzalone. In un vecchio libro celebrativo sulla Roma – che fu commissionato dallo stesso Anzalone – c'era scritto: "Del consiglio di amministrazione fanno parte dirigenti di lunga milizia giallorossa e dirigenti nuovi, immessi per la loro sportività, non disgiunta dal loro impegno politico". Già… in terra poteva bastare uno scudo (crociato) per resistere agli urti della vita. Avere un santo in Paradiso era anche meglio. La Dc e Andreotti erano sempre vicini, con occhio benevolo e una ‘mano santa' a districare anche le situazioni più ingarbugliate. Fu Andreotti a spingere Dino Viola a rilevare il club da Anzalone e, siccome ‘panem et circenses' ha sempre avuto un potere ammaliatore particolare per distrarre (o indirizzare) le emozioni del popolo/elettore, a candidarlo dopo la vittoria dello scudetto. Un plebiscito: circa 33mila preferenze alla Camera, poco mento di 30mila al Senato.
Falcao non si tocca. La leggenda popolare narra anche di una telefonata, fatta da Andreotti all’allora presidente dell’Inter, Fraizzoli nel giugno del 1983 per dissuaderlo dall'ingaggiare il campione brasiliano. Un giorno in lacrime, presenti Mazzola, Beltrami e la moglie, la signora Renata, raccontò: "Ho ricevuto una telefonata da molto, molto, molto in alto; Falcão non possiamo più prenderlo. E non chiedetemi perché. Tanto avete capito…". E Falcão è rimasto a Roma, fino al 1985.
A noi, non a loro. Ciarrapico sì, Caltagirone no. La staffetta ai vertici della Società giallorossa fu affare di corrente e mandò su tutte le furie lo "squalo" Vittorio Sbardella, a cui il ‘Ciarra' pare non piacesse. Vicino, sempre. Anche alla famiglia Sensi, come si legge in un'intervista di qualche anno fa. "Da parte mia c'è sempre stata una grande ammirazione per la famiglia Sensi, sono stati oltre che tifosi sempre sovvenzionatori dell'attività della squadra giallorossa. Loro tirano fuori i soldi, noi fischiamo o siamo felici per i risultati sportivi ma non spendiamo una lira. Roma in mani straniere? Il capitale è un conto, la squadra è un altro. Stranieri o nazionali, se la squadra va bene a tutti si chiede di dare il massimo possibile. Se la proprietà è di una o dell'altra non cambia"
Nel bene e nel male. "E' un momento difficile, però non si può sempre avere il sole, in qualche ora può anche piovere. Questo è un anno da non ripetere". Disse, quando gli chiesero della Roma di Spalletti. "Mi è simpatico, ma le domeniche che va bene nessuno parla di lui quando va male tutti se la prendono con lui. Lo stimo molto, anche come uomo, ha grande pazienza". A Zeman, alternativo al sistema (calcio) e mai alternativa di sistema, indirizzò qualche breve articolo pubblicato sul Messaggero (“A proposito di Zeman”, il 28 luglio e l’8 agosto 1999). "Riguardo a Zeman – scriveva – non mi sembra carino continuare a chiamarlo “il boemo”. Evoca il ricordo della poesia del Giusti su Sant'Ambrogio con i soldati boemi e croati messi qui nella vigna a far da pali. Poco più avanti gli stessi militi sono chiamati: schiavi per tenerci schiavi. Di Zeman mister mi colpisce la teoria che non ha importanza il risultato, ma il giuoco. E’ la leggenda del barone De Coubertin secondo cui quel che conta è il partecipare. Sarà…". Già, perché come lo stesso Andreotti amava definirsi "sono un tifoso, non sono né profeta, né uno che si mette in cattedra a dare lezioni a nessuno".
Il Coni e Roma Olimpica. Nel 1946, il Comitato olimpico nazionale stava per essere sciolto, così come stabilito nel '44, quando Giulio Onesti era stato designato commissario straordinario. La decisione spettava al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, e la mediazione dell'onorevole Ossicini si rivelò decisiva: l'intervento di Andreotti fu determinante. Altrettano lo fu nell’organizzazione dei Giochi olimpici di Roma ’60. A convincere i membri Cio nella votazione finale del 15 giugno 1955 era stata proprio la certezza che l’imponente impegno organizzativo sarebbe stato sostenuto dal governo italiano, garantito dalla designazione di Giulio Andreotti, presidente del Comitato organizzatore.