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Ventura, l’uomo di mare in pole per il dopo-Conte

Ha insegnato calcio in venti città. Si è fatto amare a Venezia, a Lecce, a Cagliari, a Torino. In cinque anni ha riportato i granata in Europa. Non ha ancora mai allenato una grande. La sua chance è direttamente la Nazionale.
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E' un uomo di mare, Giampiero Ventura, un viaggiatore che ha insegnato calcio in venti città e sembra destinato alla prima grande panchina della sua carriera, quella della nazionale. “Giampiero, sei destinato a stupire” gli scrisse su un bigliettino il medico della Pistoiese: lì, come gli piace ricordare, ha smesso di allenare ed è diventato allenatore. Vuole un calcio “libidinoso”, con la palla che frulla, a qualunque latitudine e in qualunque categoria. Proverà a farlo anche in Nazionale per i prossimi 2 anni, come da incarico di neo ct conferitogli dalla Federazione (guadagnerà 1.3 milioni ma senza bonus, nemmeno in caso di qualificazione al Mondiale di Russia 2018).

A Venezia, ha riempito lo stadio in B e battuto Juventus e Fiorentina in Coppa Italia. A Lecce lo adorano per la cavalcata dalla C alla A in tre anni. Gli hanno voluto bene a Cagliari, dove è rimasto quattro anni, a Pisa e a Bari. Ha sempre vissuto il suo ruolo di allenatore un po' come quello di insegnante di ginnastica alle medie, che ha conservato nei suoi ultimi anni da calciatore, prima di iniziare il suo viaggio in panchina. “Le qualità di un giocatore sono come la coperta di un letto. I genitori danno la qualità del tessuto e l’elasticità della fibra. Il nostro lavoro deve essere mirato ad allargare la coperta senza rovinare le fibre”.

La legacy con Conte – Come paradigma, ha scelto una frase di Tom Landry, “un santone del football americano: il mio lavoro è far fare a qualcuno qualcosa che non vuole fare, per fargli raggiungere quello che vuole raggiungere”. Ha iniziato, ancor prima di Obama, a scrivere “se vogliamo, possiamo” per motivare i giocatori. Adesso, la sua grande occasione, quella che ha aspettato per tutta la vita, sembra davvero arrivata: la panchina della Nazionale. È un cerchio che si chiude, perché Conte in fondo qualcosa gli deve. È Ventura il primo a riportare in serie A il 4-2-4, il modulo della Grande Ungheria e del Sao Paulo di Bela Guttman che Vicente Feola cucirà attorno a Didi, Vavà e Pelè al Mondiale di Svezia del ’58. Mezzo secolo dopo, in Italia lo sperimentano in pochi, e solo nelle serie minori: Ezio Glerean a Bassano e Antonio Toma, che Conte vorrà come collaboratore a Bari, a Pisa. Ventura arriva in nerazzurro proprio per sostituirlo e fa esplodere Cerci. Porta poi i pugliesi, con la stessa formazione, al miglior campionato della sua storia in serie A. Ma, come Conte alla Juventus, a Torino il modulo cambia. Ma non la filosofia di fondo, l'ispirazione al Barcellona di Cruyff: “Una squadra con un filo conduttore: essere, e sapere”.

Gli inizi – Ventura cresce a Cornigliano, dove il padre ha un negozio di alimentari, con le ciminiere di piombo dell'Italsider a connotare sogni e orizzonti. “Non ero né ricco né povero, né di qua né di là. Ma nulla mi ha mai parlato così forte come il silenzio di quella gente che entrava in fabbrica con la gavetta in mano”. Desidera l'avventura, andare lontano, “fuori dal grigio”. Sampdoriano, gioca nella Primavera blucerchiata con Marcello Lippi, Domenico Arnuzzo, Giuseppe e Pietro Sabatini. “Il calcio” spiegava, “era un codice, una scorciatoia per l'amicizia. Eravamo gente dura e incazzosa con poche lire in tasca, quando circolava un biglietto da mille passavamo le ore a pensare come godercelo sino in fondo”. Da calciatore, ha ammesso, “avrei potuto fare una discreta carriera, nulla di più. La ragione è presto detta: mi piaceva tirare tardi la sera. Se fossi stato più intelligente, probabilmente le cose sarebbero andate in un altro modo”.

Rimpianti – Ventura si prende sul serio fino a un certo punto, sa che il calcio, come la vita, è mobile e instabile. Ha un solo, grande, rimpianto. Nel 1999 potrebbe andare alla Juventus o alla Fiorentina. Ma sceglie il cuore, prova a diventare il doriano che riporta la Samp in serie A. Ma il sogno sfuma per un solo punto. “Quella scelta ha frantumato la mia carriera” ha detto. “Un genovese non può lavorare in una delle squadre di una città dove si vive di piccole e grandi invidie”.

Visione – “Non parlo mai di schemi, ma sempre di proposte”, scriveva nella tesi del Corso Master per l’abilitazione ad allenatore professionista di prima categoria, nel ’95. Una frase che da sola racconta e racchiude tutto il Ventura-pensiero. Ma non chiamatelo decano, o maestro. “Il calcio è fatto di idee che non hanno età” dice.

Mai una grande – Il concetto, però, non è facile da far accettare. Anche per questo, ha spiegato, la sua carriera si è fermata sempre a un passo dalla panchina di una grande squadra, dalla prova suprema che può portare un allenatore nella storia come Arrigo Sacchi: far divertire allenando i campioni. “Si possono avere buone idee anche se non si è più giovanissimi, si può essere vecchi dentro anche se si è ragazzini. In poche parole: un giovane non è sempre bravissimo e un vecchio sempre da buttare”. Passaggi di tempo che troppo spesso l'hanno penalizzato. “Quando ho cominciato ad allenare io, andavano di moda i grandi saggi alla Mazzone, oggi i giocatori che hanno smesso da un anno”. Ma con la saggezza della dietrologia, adesso Ventura ammette di non aver compreso subito quel che avrebbe potuto dare la svolta alla sua storia. “Pensavo che dovessi solo lavorare. Mi invitavano in tv e non andavo. Non frequentavo il salotto del pallone e questo è stato un errore. Eppure ho lanciato tanti giocatori e ho fatto guadagnare miliardi ai miei presidenti. Oggi mi sento più disincantato rispetto ad altri miei colleghi. Se mi invitano da qualche parte, ci vado. Solo che non cerco le polemiche, perché magari ti fanno diventare personaggio, ma non ti fanno vincere”.

Cuore Toro – Con l'aria disincantata e un calcio di cuore e passione, Ventura ha fatto innamorare Torino. Perché quella libidine che declina ogni volta in forma diversa (alleno per libidine, il calcio è libidine, la vita è libidine”, come le buone idee, non ha età. È arrivato accolto da dieci tifosi che lo guardavano storto al ritiro di Sappada. Ha tradito il 4-2-4 per un 3-5-2 cangiante: i sistemi di gioco, per lui, sono relativi, nella costruzione delle azioni più dei numeri contano il concetto spazio/tempo e la lettura delle situazioni. Ha riconquistato l'Europa e regalato ai tifosi la prima vittoria in un derby dopo vent'anni e il trionfo del San Mames a Bilbao. È l'impresa di cui va più orgoglioso, “perché i tremila tifosi granata che erano lì credevano che avessimo la possibilità di vincere. E questo ha significato tanto per me: rappresentava la prova che negli ultimi anni avevamo seminato qualcosa di importante”. In cinque anni, ha saputo sostituire la parola “speriamo” con “vogliamo”, ha saputo costruire una squadra protagonista del suo destino. Ha realizzato quel che i tifosi gli hanno chiesto dal primo momento, quel che gli ha detto il tassista che l'ha accompagnato per la prima volta in sede a Torino: “noi del Toro non pretendiamo che lei vinca qualcosa, vogliamo poter tirare fuori le sciarpe dai cassetti”.

In azzurro? – Ne ha visti di mari, Ventura, dalla prima volta su una panchina, all'Albenga, tra i dilettanti liguri, negli anni Ottanta. E in questi posti davanti al mare, con questi cieli sopra il mare, potrebbe presto togliersi l'etichetta di decano che non ha mai allenato una grande. L'uomo di mare, navigatore esperto di città, sta per approdare in azzurro, il colore del mare, che è silenzio, riflessione, gioia, a volte angoscia; romanticismo, energia. È tutto. E in mare, i se, se li portano via le onde”.

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