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Opinioni

‘Sin prisa, però sin pausa’. Costi quel che costi, non fermarti Napoli

Tornare a vincere, salvare la stagione, riscatterebbe tutti (tecnico, calciatori, dirigenti) per il futuro. Il successo sul Wolfsburg spiana la strada verso la semifinale di Europa League, il campionato riserva ancora possibilità di rimonta. Che peccato, davvero, non provarci e sprecare tutto.
A cura di Maurizio De Santis
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Che peccato. A veder giocare il Napoli in quel modo contro il Wolfsburg è la prima cosa che ti sale in gola assieme alla soddisfazione per averle suonate sul muso ai ‘teteschi di Germania' e regalato un po' d'orgoglio a chi lassù c'è andato a trovar lavoro e fortuna. Spezzando le reni proprie, non quelle degli altri. E che sfizio vedere gridare allo scandalo, alla vergogna quei giornali che sopra gli spaghetti ci hanno messo le pistole e a noi rotto le scatole con la solita storia di camorra, pizza, mandolino e putipu'. Nel bene e nel male siamo altro, dovremmo essere altro, possiamo essere altro.

Che peccato, davvero, aver buttato alle ortiche una stagione (in campionato) che, almeno fino alla levata di scudi in Coppa, non è stata affatto all'altezza della prestazione esibita in Europa League. Nell'anno del tracollo delle milanesi, meste e anonime, della Roma in affanno è un delitto franare nelle posizioni di rincalzo per non aver saputo gestire, capitalizzare contro le ‘piccole' un patrimonio di punti ed entusiasmo conquistati contro le ‘grandi'. Homo homini lupus, l'uomo è un lupo per l'uomo, così come gli azzurri lo sono stati per quelli della Bassa Sassonia. Ma il pregio e il difetto endemico, l'identità della formazione di Benitez sono questi: le discese ardite all'inferno e le risalite a riveder le stelle ne hanno contraddistinto il cammino e limitato il potenziale. Incredibilmente forte, sfrontato, battagliero contro avversari di rango; irriconoscibile con tutti gli altri. Euforico e deprimente. Homo omini lupus, il Napoli è il primo nemico del Napoli. E non può essere solo questione d'interpreti, di cifra tecnica dei calciatori che vanno in campo.

Che peccato, davvero, aver perso (e al tempo stesso regalato) al San Paolo come a Bilbao – laddove ha vinto il Torino di Ventura non il Real di Ronaldo/Bale/Benzema o il Barça di Messi/Neymar/Suarez – la qualificazione alla Champions League. Un brutto colpo per le finanze, le ambizioni di mercato, indissolubilmente legato alle fortune di Coppa, e il morale di un gruppo che ha fallito al primo, vero appuntamento importante della stagione. Il più importante, quello che andava difeso e strappato con i denti, è stato buttato al vento. Leoni (i baschi) per agnelli (i partenopei).

Homo omini lupus, il Napoli è (stato) il primo nemico del Napoli. E allora è arrivata la partenza a scartamento ridotto in campionato fino alla notte di Doha e della Supercoppa strappata alla Juventus, della rimonta sulla Roma che s'è interrotta sul più bello. In un Glik, per una furbata di Pinilla e d'una squadra (l'Atalanta) ridotta in dieci. Perché il Palermo/Chievo/Empoli/Verona ci mettono furore agonistico e spazzano via la tua spocchia/integralismo/presunzione tattica. Perché senza coraggio e ‘cazzimma' (come all'Olimpico coi giallorossi, altro momento topico) non vai lontano. Perché ammettere d'aver sbagliato, anziché trincerarsi dietro la sterile logica di statistiche che cozzano contro risultati che non arrivano, non significa abdicare. Perché, forse, le cose semplici, il puro pragmatismo, un po' di bastone e altrettanto di carota, ogni tanto pure aiutano. E a prendersela sempre con gli arbitri oppure con i media che muovono critiche fai la figura del piagnone che non sa vincere e nemmeno sa perdere. Che peccato, davvero, avere la luna a Marekiaro (Hamsik) e ululare contro piuttosto che trovare il modo di valorizzarne le qualità. Poi capita che i ‘lupi', quelli tedeschi, finiscano nella tagliola (gol e prestazione dello slovacco) e il dubbio d'aver sbagliato qualche valutazione nasce (o dovrebbe nascere) spontaneo. Tornare a vincere, salvare la stagione, riscatterebbe tutti (tecnico, calciatori, dirigenti) per il futuro.

Benitez è uno che dorme col manuale del calcio accanto al cuscino e il taccuino degli appunti sul comodino. E' un manager, non un semplice allenatore. E, soprattutto, non è uno sprovveduto. Quando ha accettato la panchina del Napoli sapeva bene in quale realtà si stava calando: la realtà di un club dalla crescita lenta ma finora progressiva, che grazie alle Coppe e agli introiti, alla cessione di calciatori che hanno fruttato notevoli plusvalenze (Lavezzi prima, Cavani poi) è riuscito a tessere la trama di contatti, contratti e ambizioni portando sotto il Vesuvio giocatori affermati come Higuain e un tecnico come lo spagnolo che – almeno fino all'arrivo di Mancini all'Inter – era il più pagato in Italia; la realtà di una società che – come del resto tutto il calcio italiano – ha carenze strutturali e limiti d'investimento perché non ha i petrol-dollari dello sceicco a foraggiare campagne acquisti e architetti del business plan a progettare impianti da mille e una notte; la realtà di una società che, al netto dei dividendi incassati/investiti dai suoi azionisti (la famiglia De Laurentiis), dovrebbe finalmente spiegare cosa vuol fare da grande (e come).

Vero, i soldi non fanno la felicità ma se ci sono aiutano a star meglio. Nel calcio, però, non è detto che sborsarne molti equivalga a ottenere risultati straordinari: basta dare un'occhiata a cosa sta accadendo in quella Manchester (sia sponda United, sia sponda City) e in quella stessa Premier sbattute fuori dall'Europa e costrette a ridimensionare budget e rose. Ha ragione Benitez quando dice "voglio capire se c'è volontà di crescere". Considerata l'esperienza accumulata in questi due anni, quali siano i margini/tempi/modi è un particolare che dovrebbe essergli già chiaro e sufficiente a essere onesto con se stesso e con un ambiente che, data la passione viscerale verso il calcio e il Napoli, lo seguirebbe anche all'inferno. Come accaduto a Paestum, quando questa società non aveva nemmeno i palloni per allenarsi. Come accaduto sui campi della Serie C. Come accaduto quando nelle notti magiche della Champions l'urlo dei tifosi – e d'una città intera che canta a squarciagola l'inno – è rimbalzato da una parte all'altra del Vecchio Continente.

Se Benitez vuol andar via perché medita altro per se stesso è giusto che sia così. E' la sua vita, la sua carriera e ne ha pieno diritto. Gli siamo/saremo grati a prescindere per ogni cosa, qualunque sia/sarà la decisione maturata, com'è giusto che sia nei confronti di chi ha lavorato con professionalità. Se decide di restare, e questo vale anche per chiunque altro ne raccoglierà il testimone, la smettano di ricordarci quali sono i nostri limiti. Li conosciamo, ce ne siamo fatti una ragione. Ne abbiamo tratto forza, sappiamo come arrangiarci. Non abbiamo bisogno che ci ricordino quanto siamo ‘brutti, sporchi e cattivi', che non abbiamo abbastanza soldi per permetterci di viaggiare in Ferrari piuttosto che a bordo d'una Punto. Ne siamo consapevoli. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci regali una visione, un grande sogno per ripartire, da coltivare. Senza illusioni, costi quel che costi. ‘Sin prisa, però sin pausa'.

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Da venticinque anni nel mondo dell’informazione. Ho iniziato alla vecchia maniera, partendo da zero, in redazioni che erano palestre di vita e di professione. Sono professionista dal 2002. L’esperienza mi ha portato dalla carta stampata fino all’editoria online, e in particolare a Fanpage.it che è sempre stato molto più di un giornale e per il quale lavoro da novembre 2012. È una porta verso una nuova dimensione del racconto giornalistico e della comunicazione: l’ho aperta e ci sono entrato riqualificandomi. Perché nella vita non si smette mai di imparare. Lo sport è la mia area di riferimento dal punto di vista professionale.
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