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Simply the (George) Best

Dieci anni fa moriva George Best. Un campione che ha unito una nazione divisa, perché le violenze fra cattolici e protestanti a Belfast le ha viste da lontano. Perso nel suo esilio fra alcol, donne, auto di lusso e ville: il lato oscuro del più grande simbolo degli Anni ’60, il 7 nella leggenda dello United.
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“Too long in exile”, “in esilio troppo a lungo”. Serviva Van Morrison per spiegare in una frase George Best, che moriva il 25 novembre di 10 anni fa per un'overdose di farmaci. Hanno in comune la stessa cultura, sono due dei più grandi geni della cultura popolare irlandese, e nord-irlandese, del Novecento, sono figli di famiglie protestanti, cresciuti nei quartieri proletari della Belfast degli anni Sessanta, e non sono mai riusciti a venire a patti con la celebrità.

"Mi sa che ho trovato un genio" – Un esilio da se stesso, passato per l'alcool, che ucciderà sua madre nel 1978, le auto, le donne e tutti gli altri modi in cui ha sperperato i soldi. "Quando il calcio era importante e io giocavo bene, non vedevo l'ora di alzarmi la mattina: era la mia unica ragione di vita. Quando il gioco non è bastato più a buttarmi giù dal letto, non ho visto altri motivi validi per smettere di bere" scrive nella sua autobiografia, The Best. E' il lato oscuro di una celebrità ostentata, cade la maschera sfacciata che ha usato per nascondere il George riservato e più autentico (che poi all'anagrafe si chiamasse Ronald Samuel fa davvero poca differenza). “Dicono che sono uscito con sette Miss mondo, ma erano solo quattro, alle altre ho dato buca” raccontava, come ricorda Emanuela Audisio su Repubblica, ma erano solo due. E comunque poche non sono, per chi ha iniziato sui campetti del parco di Burren Way, nel distretto di Castlereagh, a East Belfast, dove sui lampioni e sulle finestre delle case sventola la Union Jack, senza nemmeno la consolazione del sole sul tetto dei palazzi in costruzione. Tanti lo vedono al Cregagh Boys Club, e tutti lo scartano perché è troppo magro, troppo gracile. Bob Bishop, “Il Vescovo”, capo degli osservatori del Manchester United, che non ha mai curato troppo l'estetica nel suo modo di vestire, vede oltre le apparenze. Chissà se davvero le ha mai scritte quelle otto parole a Matt Busby, l'allenatore che ha visto il meglio della sua generazione andare via, morire nel disastro aereo di Monaco: “Mi sa che ti ho trovato un genio”. Parte per la prima volta nel 1961, ma sente la mancanza di casa e torna a Belfast. Anche Busby, però, ha visto il genio dietro quel fisico secco come un chiodo. Lo mette a pensione dalla signora Fullaway, a Aycliffe Avenue, e nel maggio 1963, a 17 anni, gli fa firmare il primo contratto da professionista.

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Il quinto Beatle – È passato un mese dall'uscita del primo LP dei Beatles, in cui sembra già racchiusa tutta la storia del “quinto Beatle”, che pure con certa ironia si vedrà due anni dopo fra il pubblico di Top of the Pops mentre i Rolling Stones cantano “The Last Time”. Il campione che cerca di piacere e di farsi amare (Please, please me), che si scatena a suon di finte (Twist and shout), che assaggia per la prima volta “A taste of honey”, il gusto dolce del miele e della felicità sportiva, ma ha già un segreto, un luogo della solitudine (There's a place): nasconde sotto il letto un barattolo di birra disperata, allora solo metaforicamente (la prima sbronza, racconta, è del 1964) e a volte ritiene di essere un eroe. Un eroe che nella morte ha unito un'isola divisa. C'erano centomila persone al suo funerale, una cerimonia di stato nella forma, celebrato nel Castello di Stormont, ex sede del Parlamento nord-irlandese e da sempre considerato dai cattolici uno dei simboli del potere lealista. C'era Dennis Law che portava la bara e in sottofondo inni cattolici misti alle arie da Les Misérables. C'erano tutti, con gli occhi rossi e il cappello in mano, ad omaggiare la più grande icona d'Irlanda, il primo calciatore cui sia stato intitolato un aeroporto, a Belfast appunto, perché, come un ignoto tifoso ha scritto quel giorno su una bandiera dell'Ulster prima che le cornamuse suonassero il lamento funebre: “Maradona good. Pelé better. George Best”.

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Frasi celebri – "Ho sentito molte leggende raccontate ai bambini" diceva, "e alcune riguardavano me". Ha unito generazioni, idolo ancora oggi di ragazzini che dal vivo non l'hanno visto mai giocare. "Non è possibile spiegare cosa significhi segnare un gran gol a qualcuno che non ci sia mai riuscito" spiegava. Qualche anno fa dissi che se mi avessero dato la possibilità di scegliere tra segnare un gol al Liverpool da ventisette metri, dopo aver saltato quattro uomini, e andare a letto con Miss Mondo, sarebbe stata una scelta difficile. Per fortuna, ho avuto entrambe le cose e soprattutto, una di queste cose l'ho ottenuta davanti a cinquantamila persone". I tifosi dello United hanno amato solo Ryan Giggs più di lui. Una passione unanime per un campione che ha diviso, a suon di giudizi tutt'altro che politically correct sulle icone del calcio moderno. "Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto" diceva di Beckham, "a parte questo, è a posto". Ha collezionato ricordi e rimpianti, ha rappresentato il sogno proibito di ogni ragazzo con le spalle strette e la maglia numero 7. Un puzzle con un pezzo mancante, ha inebriato col gusto un po' amaro delle cose perdute in un tempo bruciato troppo in fretta. "Se fossi nato brutto" ha detto in una delle sue frasi più celebri e insieme più iconiche, "non avreste mai sentito parlare di Pelè".

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Non toccato dalla violenza – Ha unito anche perché la violenza settaria, la Belfast dell'IRA e del Bloody Sunday, l'ha solo sentita raccontare. Nella sua autobiografia ha scambiato per cattolica la tifoseria, notoriamente protestante, del Glentoran, per cui faceva il tifo suo padre. Non c'era già più nel 1963, quando il leader unionista Terence O'Neill diventa Primo Ministro dell'Irlanda del Nord e prova a unire le due comunità attraverso la crescita economica e la cultura, nell'Università dell'Ulster. Non c'era nel 1966, quando scoppiano le prime rivolte, dopo la nascita dell'irlanda Partito Unionista Protestante del reverendo Ian Paisley, che aveva fondato la Chiesa Presbiteriana Libera, cui apparteneva il padre di Best, operaio nei cantieri edili della dei cantieri navali Harland e Wolff, che hanno costruito il Titanic. Il suo volto compare su uno dei murales che ingentiliscono il panorama della Linea della Pace, gli 88 muri che dal 1968 separano quartieri cattolici e protestanti, il primo eretto fra la cattolica Bombay Street, uno dei luoghi chiave degli scontri del 1969, dalla protestante Cupar Way. Da piccolo ha sfilato per volere del padre nelle marce orangiste con lo striscione della loggia locale, e nel 1972, prima di un match di qualificazione per gli Europei contro la Spagna, viene minacciato di morte perché, si dice, abbia dato dei soldi al partito di Paisley, futuro primo ministro che nel 2007 stringerà la mano al vicepremier McGuinness, un ex combattente dell'IRA, a suggellare la chiusura di una stagione di sangue e uno storico accordo di pace.

Icona dei Sixties – Il lungo esilio, però, lo allontana dalle appartenenze e dalle divisioni di una nazione, l'Irlanda del Nord, unita di nuovo nel segno dello sport grazie alla qualificazione a Euro 2016. Quando sottrae il pallone a Banks, e segna uno dei più celebrati gol annullati nella storia del calcio, il suo gesto si limita alla furberia sportiva, al colpo di genio rinchiuso e racchiuso dalle linee di gesso che delimitano il campo. Non ha il valore psicologico, sociologico della mano de Dios di Maradona, un'irregolarità che sa di vendetta, di riscatto per i tanti argentini morti nella guerra delle Falkland. Rubare il pallone a Banks, per Best, non è come rubare il portafoglio agli inglesi. In realtà, il giovane George ha sempre avuto altre priorità, lontane della celebrazione della vittoria del protestante re Guglielmo III sulle rive del fiume Boyne delle truppe del cattolico Giacomo II nel 1690. E'molto più di un working class hero, è l'icona degli anni '60, gli anni della libertà, dell'ottimismo, l'età d'oro della mobilità sociale. Si sentiva irlandese, ha più volte invocato la nascita di una nazionale unica, e pazienza se l'idea sembrava troppo unionista.

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Tutto sbagliato –In anticipo sull'edonismo reaganiano, è l'icona più splendente e insieme il lato oscuro della celebrità disimpegnata, dell'energia vitale della generazione del '68. E non ha difficoltà a inserirsi nel Manchester United che proprio con Busby comincia ad assumere un'identità e un sistema di valori fortemente cattolico. Allo United regala il gol-capolavoro al Benfica di Eusebio (prende palla a metà campo e scarta mezza squadra, portiere compreso) e la Coppa dei Campioni a Wembley, primo titolo per una squadra inglese. Segna sei gol in una sola partita, in sessanta minuti, al Northampton: Six of the Best, titoleranno i giornali. Si ubriaca la sera in cui gli danno il Pallone d'oro e inizia la rapida road to perdition. Senza programmi di aiuto e supporto, che invece vent'anni dopo salveranno la carriera di Paul Merson, la tendenza all'autodistruzione si fa patologica, rivelazione di un uomo che sembra sentirsi in colpa per la ricchezza che il talento gli ha concesso. Un campione nato di 22 maggio e arrivato all'apice della gloria a 22 anni, che ha rivelato senza volerlo la sua maschera nuda al cameriere di un hotel. Una sera, il ragazzo gli porta in camera una bottiglia di champagne e lo trova sul letto insieme a Miss Mondo e a migliaia di sterline vinte al casinò, stese come i petali di rose nella locandina di American Beauty. Basta una domanda a spezzare un sogno: "Mr Best, where did it all go wrong?", "quand'è che le cose hanno iniziato ad andarti male?".

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