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Serie A, la crisi è servita: 7 squadre senza sponsor

Niente marchi sulle maglie di Roma, Lazio, Fiorentina, Genoa, Sampdoria, Palermo e Cesena. Offerte inesistenti o troppo basse. Il merchandising non funziona e la serie A attrae sempre meno investitori e giocatori.
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Il campionato più bello del mondo è solo un ricordo. E' vero, nonostante la stagnazione i ricavi sono saliti del 7,7% secondo i dati Arel sui bilanci 2013, ma la serie A ha debiti netti complessivi per un miliardo e mezzo. La crisi del calcio italiano, sempre meno protagonista in Europa e nel mondo, e sempre meno appetibile per i top player, è profonda e strutturale. L'ultima dimostrazione arriva dagli sponsor: sette squadre (Roma, Lazio, Fiorentina, Genoa, Sampdoria, Palermo e Cesena) non avranno loghi o marchi sulle maglie. In nessuno dei cinque principali campionati europei la quota è così alta. E qui non c'entrano valori autarchici e rafforzamento dell'identità come nel caso del Barcellona o dell'Athletic Bilbao, che solo in un passato molto recente hanno ceduto al profumo dei soldi. In Italia semplicemente le offerte non ci sono, o sono più basse della domanda dei club.

Il caso Roma e Fiorentina – Chiusa l'era Unicredit, con James Pallotta passato a controllare il 91% del club insieme ai soci Usa, concluso l'aumento di capitale da 100 milioni, la Roma è tornata a pensare al nuovo stadio da costruire a Tor di Valle ma ha rifiutato la proposta di una compagnia aerea che aveva offerto tra i 4 e i 5 milioni per apporre il suo marchio sulle maglie giallorosse. Il club, però, ne chiedeva non meno di 15. La Fiorentina, invece, ha perso l'accordo con Mazda, che ha garantito 3,4 milioni nel 2013.Il club viola ha messo a bilancio per il 2013 un surplus da 1,4 milioni e ricavi grazie alle cessioni di Jovetic, Ljajic, Seferovic e in misura minore al ritorno in Europa League. 13 milioni il totale dei ricavi commerciali: oltre all'accordo con Mazda, lo sponsor tecnico Joma ha pagato 2,6 milioni e Firenze Viola srl 3,2.

Merchandising, questo sconosciuto – Il flop del calcio italiano si misura anche dalla quasi totale assenza di politiche di merchandising da parte dei club. Secondo l’European Football Kit Supplier Report 2014 realizzato dalla società francese Repucom, nell’ultima stagione sono state vendute 13 milioni di maglie delle squadre del cosiddetto Big Five: in testa la Premier League (5,14 milioni), seguita da Liga (3,10 milioni), Bundesliga (2,32 milioni) e Ligue 1 (1,22 milioni), che grazie al Psg degli sceicchi fa persino meglio della Serie A, ultima con soli 1,18 milioni di maglie vendute. Così, se James Rodriguez, costato 80 milioni al Real Madrid, ne ha già fruttati 15 solo con la vendita della sua camiseta blanca numero 10, in serie A opportunità di questo genere vengono esplorate troppo raramente. E l'effetto è negativo due volte: perché se si vendono poche maglie, anche gli sponsor tecnici tendono a rivedere i contratti al ribasso. La sproporzione appare in tutta la sua evidenza dagli ultimi accordi conclusi dal marchio Adidas, che ha griffato anche l'arrivo di Rodriguez a Madrid. Per la prima volta dal 2010 i tedeschi non rappresentano più la maggioranza dei 98 club iscritti ai campionati di Inghilterra, Germania, Spagna, Francia e Italia (il bilancio è 26 a 18 per Nike). Adidas però ha resistito alla concorrenza americana in Premier League, dove mantiene cinque squadre, e ha concluso un accordo da 94 milioni di euro all'anno per 10 anni con il Manchester United, che ha subito messo sul piatto 75 milioni per convincere Angel Di Maria a lasciare Madrid. Una cifra che fa impallidire i 23,25 milioni che verserà alla Juventus per le prossime sei stagioni, e anche i 38 pagati al Real Madrid fino al 2020. Come si spiega la ratio dell'investimento monstre a favore dei Red Devils? Semplice. “Nei cinque principali campionati europei” ha spiegato Pierre-Emmanuel Davin, direttore di Repucom France, “il 65% dei proventi totali derivanti dalla vendita delle maglie proviene dai 10 club più grossi, soprattutto dalla Premier League”.

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Scarso appeal – A parte l'antica questione degli stadi di proprietà, con la Juve pioniera della rivoluzione, la serie A non attira. E non solo in materia di diritti tv (poca cosa i 117 milioni di diritti esteri per la serie A nel 2013-2014 a fronte dei 908 per la Premier League). La Bundesliga nella stagione 2013-2014 ha registrato una media di 43.173 spettatori allo stadio, contro i 36.589 della Premier, i 26.867 della Liga e i 23.365 della serie A, che precede la Ligue 1 (media di 20.693 presenze). Perciò non è da escludere se l'Italia perde colpi mentra la concorrenza si rafforza. Non è un caso se il Barcellona si è potuto permettere di spendere 84 milioni per Suarez, se il Real Madrid ne ha sborsati oltre 100 per Kroos e Rodriguez, quanto il Chelsea per assicurarsi Filipe Luis, Diego Costa e Cesc Fabregas. Non è un caso che la serie A in questa finestra di mercato abbia perso tre top player (Balotelli, Benatia e Cerci) e che le uniche vere stelle in entrata siano Iturbe e un Fernando Torres in fase calante.

Quantità e qualità – Eppure siamo il campionato che ha “mosso” più giocatori, anche per via dei riscatti e delle comproprietà. Oltre 1300 i movimenti in entrata, dopo le cessioni di Cerci all’Atletico Madrid e dei “napoletani” Pandev e Dzemaili al Galatasaray, e in attesa dei colpi dell'ultim'ora. La serie A ha speso più dell'anno scorso, circa 290 milioni quest'anno, ma pur sempre molto meno della Premier League, che in una sola estate ha superato la spesa complessiva dell'intero mercato 2012-2013 e sfondato il miliardo di euro di colpi in entrata. La Liga, invece, si conferma regina delle esportazioni. E l'Italia resta a guardare. Ma la quantità non genera più qualità.

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