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L’eredità di Conte all’Italia: vincere si può ma da soli non si va lontano

Il ct lascia il Paese a testa alta dopo un Europeo che ha confermato sul campo le qualità dell’uomo e dell’allenatore ma, al tempo stesso, alimenta il rammarico per un calcio – il nostro – litigioso e privo di una visione progettuale comune. “Non vedevo nessuno al mio fianco. Sembrava che dovessi fare sempre io la guerra. Con me c’era soltanto il presidente Tavecchio, ma i presidenti arrivano fino a un certo punto”, le ultime parole prima dell’addio.
A cura di Maurizio De Santis
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Antonio Conte lascia la panchina della Nazionale, lo attende il Chelsea
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A caldo Antonio Conte ha elogiato il grande cuore della sua Italia, una Nazionale che all'Europeo in Francia ha giocato con la compattezza e la determinazione di una squadra di club, sopperendo alle lacune endemiche di una rosa monca sia per gli infortuni che l'hanno privata di pedine chiave (Marchisio, Verratti, poi De Rossi) sia per l'assenza di qualità. Cuore e carattere mai sono mancati, l'ex ct ha plasmato un gruppo a sua immagine e somiglianza aiutato anche dal blocco juventino che del tecnico conosceva pregi, difetti, la voglia matta di non arrendersi mai, il tatticismo (non quello barricadero) della scuola italiana, la mentalità acquisita in tanti anni in bianconero (dove arrivare secondo è una sconfitta), mai piangersi addosso, metodo e passione, soprattutto lo spirito di coesione necessario quando ambisci a grandi imprese.

E una grande impresa l'Italia l'ha realizzata uscendo tra gli applausi sinceri da un torneo che, almeno alla vigilia, la vedeva partire in terza fila: non era abbastanza forte da arrivare fino in fondo, perché nei momenti clou non puoi prescindere dalla qualità e dall'esperienza; non era così scarsa da essere schiacciata dai panzer che – loro sì al completo – si sono svegliati dall'incubo solo all'ultimo rigore, sudati e col fiatone.

A mente fredda dall'Azzurro al Blues è questione di sfumature. A Londra Conte sbarcherà con ottime referenze conquistate sul campo. Se un tabellone che la sorte ha voluto così penalizzante e sbilanciato non avesse sistemato tutte le più forti da una parte, la partita di Bordeaux sarebbe valsa una semifinale o una finale. ‘Capolavoro' sarebbe stata l'altra faccia dell'odierno ‘a testa alta'. E i ‘bastardi senza gloria' avrebbero lasciato il segno ancora una volta sui tedeschi.

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso. E nemmeno offeso. Ha ragione Conte quando con amarezza dice di essere stato lasciato solo.

Non nego che c'è stato un momento in cui avrei voluto avere l'opportunità di continuare – ha ammesso a mente fredda – ma di fronte a certe evidenze non ho potuto soprassedere. Non vedevo nessuno al mio fianco. Sembrava che dovessi fare sempre io la guerra. Con me c'era soltanto il presidente Tavecchio, ma i presidenti arrivano fino a un certo punto.

E' anche vero, però, che tutto questo Conte lo sapeva già. Che quest'andazzo è la ragione/causa delle difficoltà in cui versa il calcio italiano diviso su ogni cosa ma unito al momento della spartizione dei soldi e dei diritti tv. Che l'assenza di piani futuri fa da zavorra a una tradizione sportiva, agonistica che l'Europa – quella che celebra l'Italia al pari della Germania definita fortunata – ci riconosce ma noi non sappiamo capitalizzare coltivando la crescita dei nuovi Pirlo, Buffon. Che i tedeschi, in questo, sono stati più bravi e hanno capito che mettere da parte gli interessi bottega avrebbe dato una spinta all'intero movimento articolato e rinato sulle accademie giovanili, sulle strutture e su una visione progettuale capace di produrre ricchezza sportiva ed economica, realizzando quell'equilibrio tra ricavi, sponsor e introiti televisivi così lontani dalla nostra filosofia di eterno precariato. La nostra filosofia che nasconde tutto sotto il tappeto del maledetto ‘scavetto' declamato da Pellè.

Vincere si può, Conte lo ha dimostrato. Vincere si può, serve crederci. Vincere si può ma basta piangersi addosso. Vincere si può ma da soli non si va lontano.

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