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Il Calcio fa bene alle ossa

Ferdinando Valletti, da San Siro ai lager

Nella settimana della memoria, “Il calcio fa bene alle ossa” ricorda la storia di Ferdinando Valletti. Mediano del Verona e del Milan, rinchiuso a Mauthausen, fu risparmiato proprio per il suo passato da calciatore. E salvò la vita del pittore Aldo Carpi.
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Il Calcio fa bene alle ossa

È una mattina di quasi primavera a Milano. E come ogni mattina il binario 21, il binario morto della stazione Centrale per qualche ora si anima. È un binario che nel nulla parte e al nulla è destinato. È da lì che si avviano i treni che deportano ebrei e comunisti verso i campi di concentramento. La mattina del 17 marzo 1944 sul treno che porta a Mauthausen c'è Dante Spallanzani, che lavora alla Carpani, la più grande azienda italiana di aeroplani, che ha partecipato a uno sciopero, l'unico in Italia, indetto dal Comitato segreto di agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. E ci sono 22 dipendenti dell'Alfa Romeo, accusati di volantinaggio in favore di un'agitazione sindacale. Tra loro c'è Ferdinando Valletti: ex componente della Brigata Garibaldi, lo arrestano di notte, lo portano a San Vittore ancora in ciabatte e lo mettono sul treno per la morte. Ha lasciato a casa la moglie, incinta di pochi mesi: ancora non sanno se partorirà un bambino o una bambina. Sarà uno dei pochi a salvarsi tra i 40 mila deportati italiani nei lager: e a salvarlo sarà il calcio.

La carriera – E' nato a Verona, Valletti, nel 1921. Con in tasca un diploma di perito industriale dell'Itis Galileo Ferraris, arriva a Milano nel 1938, l'anno delle leggi razziali. Entra all'Alfa Romeo, dove diventa Maestro d'Arte. E insieme gioca a calcio. Mediano dai piedi ruvidi, col destino di gregario già segnato, anni di fatica e botte, sempre lì nel mezzo finché ce n'hai, si è fatto notare all'Hellas e una volta arrivato in Lombardia trova un posto al Seregno, in serie B. Viene notato dal Milan, anche se nella stagione 1942-43 gioca solo tre amichevoli, complice qualche problema di troppo a un ginocchio. Quel 17 marzo 1944 il Milan, o meglio il Milano come si chiamava allora in obbedienza all'autarchia mussoliniana, sta preparando la seconda giornata di ritorno della divisione Lombardia del “campionato di guerra”, che finirà con lo scudetto non omologato, e non assegnato, dei Vigili del Fuoco di La Spezia. La primavera però non porta nuovi colori e nuove speranze. Anzi, il nero si fa sempre più scuro, più cupo.

Calciatori nei lager – Il calcio non può non risentirne. Il 13 marzo, quattro giorni prima, è stato arrestato Vittorio Staccione, che ha giocato nella Cremonese e nel Verona, e nel 1927 viene acquistato dalla Fiorentina del conte Luigi Ridolfi, fascista della prima ora. Lasciato il calcio nel 1935, è entrato a lavorare in Fiat: viene arrestato per attività antifasciste insieme al fratello, e insieme moriranno a Mauthausen nell'aprile del 1945. Tra il 7 e l'8 marzo è stato spedito a Mauthausen anche Carlo Castellani, mezzala del Livorno prima e poi dell'Empoli, che gli ha dedicato lo stadio. Sarà poi mandato al sottocampo di Gusen dove morirà a 35 anni.

L'incontro con Carpi – Per Valletti la meta è la stessa, il lager nell'Alta Austria, il solo campo di concentramento nazista di classe 3, un campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito, la denutrizione e gli stenti. Dopo pochi mesi viene anche lui spostato a Gusen, e qui incontra Aldo Carpi, artista geniale, all'epoca titolare della cattedra di pittura all'Accademia di Brera. Nipote di un ebreo convertito al cristianesimo, viene arrestato perché un suo collega ha denunciato il suo tentativo di aiutare una sua alunna israelita. A Gusen, Carpi realizzerà una ritratti di carcerieri e dei loro figli, mogli, fidanzate, magari con l’aiuto di un’ingiallita fotografia, e terrà un preziosissimo diario con annotazioni scritte su foglietti di fortuna. Più volte, Valletti lo aiuta, e in più di un'occasione gli salva la vita.

Le SS e il calcio – Nel campo, le SS organizzano diverse partite di calcio. Ad una squadra, un giorno, manca proprio un mediano. Il kapò si affaccia alle baracche e chiede ai deportati se qualcuno di loro se la sente di giocare. Valletti, ormai ridotto a un mucchio di ossa di 39 chili, raccoglie tutte le sue forze e passa il provino. È allo stremo delle forze, sta rischiando tutto, ma sa che quella è anche una grande opportunità. Non solo diventa la riserva ufficiale delle squadre naziste, ma viene “promosso” a sguattero nelle cucine, un lavoro ambito perché meno faticoso e assicura il rancio. Valletti però non dimentica gli amici della baracca, i suoi colleghi all'Alfa Romeo, l'anziano Romanoni, Vignolle, Crippa, Nespoli, e nascosti negli zoccoli porta fuori dalle cucine gli scarti dei pasti degli ufficiali.

Il ritorno a casa – A gennaio del 1945 il campo di Mauthausen arriva a contare 85 mila prigionieri, soprattutto nemici politici del Reich. Il 5 maggio gli americani liberano il campo. Ad agosto, dopo essere stato curato, Nando torna a casa. Riabbraccia la moglie e vede per la prima volta sua figlia, Manuela, che ha raccontato la sua storia nel libro “Deportato I 57633” del 2009. “E' stato un momento molto intenso” ha raccontato alla BBC. “Avevo 10 mesi quando mio padre è tornato a casa, non sapeva nemmeno se ero nata, se ero un maschio o una femmina. È stato una specie di miracolo, abbiamo sempre avuto un rapporto speciale”.

Il Milan – Valletti tornerà a lavorare all'Alfa Romeo, diventerà uno dei dirigenti dell'azienda con una cattedra di docente presso l'Associazione Meccanica e l'Istituto di Studi Economici e per l'Occupazione. Nel 1976 riceve dall'allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, l'Ambrogino d'oro. E tre anni dopo ottiene il titolo di Maestro del Lavoro dal presidente della Repubblica. È rimasto per tutta la vita un tifoso del Milan. Per questo la figlia Manuela sogna di vedere una placca che ricordi suo padre nello stadio di San Siro. “Il Milan ha riconosciuto la storia di mio padre, che compare nei loro archivi. Ma sarebbe molto fiero se ci fosse una targa che menzioni il suo contributo alla squadra, che racconti la sua storia. Ne sarebbe davvero orgoglioso”. Una targa per testimoniare che tutto e tutti viaggiamo verso la morte, ma forse quel che muore un giorno ritorna. Una targa che ricordi come il calcio, nel periodo più buio della nostra storia, ha salvato una vita. La vita di un mediano. La vita di un eroe.

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