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Eder, Vazquez e gli oriundi: l’azzurro non è uguale per tutti

Per la rubrica “Il calcio fa bene alle ossa” ripercorriamo in parole, opere e omissioni la storia (ciclica) di questo serbatoio al quale arriviamo sempre quando siamo in riserva d’altro.
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Non li abbiamo mai amati. Ma abbiamo avuto periodicamente bisogno di loro. Per ragioni non solo sportive. E ora che Conte ha convocato Eder e Vazquez, il dibattito si è riacceso: chiamare o no gli oriundi in nazionale?

Oriundi sì, oriundi no – "È un discorso che vale per tutti – ha spiegato il presidente del Coni Malagò – non vedo perché dobbiamo scoprire ora di essere diversi”. Se non stupisce la rivendicazione autarchica di Salvini a Ballarò, "Vedere gente che ha la maglia azzurra perché ha la nonna che è nata in Italia fa molta tristezza", la rivendicazione di Roberto Mancini sull’Italia agli italiani suona come un rifiuto del progresso. Una nostalgia d’autarchia che riporta a tempi lontani, ancor più significativa se arriva da un allenatore cosmopolita, sulla panchina della squadra che più di tutte fa dell’apertura una filosofia di gestione, tanto da portarla perfino nel nome.

Eder e Vazquez – Eder e Vazquez saranno rispettivamente l’oriundo numero 42 e 43 nella storia della nazionale. Una striscia che inizia nel 1920 con Ermanno Aebi, svizzero nato a Milano che chiamavano “signorina” per la raffinatezza del tocco, che in azzurro giocherà due partite e segnerà tre gol all’esordio, nel 9-4 contro la Francia al Velodrome del 18 gennaio. Ma ha senso nel 2015 parlare ancora di Italia agli italiani? In un mondo di matrimoni misti, di appartenenze nazionali fluide, di libertà di circolazione senza limiti e confini, hanno ancora senso gli arroccamenti, le chiusure, i protezionismi, i muri? Ha ancora senso pensare di fermare il progresso, ha senso ignorare che la Francia ha costruito la grandeur degli Anni Novanta e dei primi Duemila anche sul sangue Bleu degli eredi dell’esperienza coloniale, che la Germania ha vinto l’ultimo mondiale con in squadra ghanesi, turchi, polacchi?

Principi e definizioni – La questione di principio avrebbe molta più forza e raison d’etre se l’Italia avesse messo in vendita la cittadinanza dietro pagamento come la federazione kazaka di tennis: il miliardario presidente Nazarbaev, infatti, ha pagato giocatori russi di secondo piano per rinforzare la squadra di Fed Cup e Coppa Davis, che ha battuto l’Italia poche settimane fa schierando un moscovita di nascita e un italiano d’adozione, Golubev, che ha vissuto per anni a Bra. Non è questo il caso di Eder o di Vazquez, accomunati dalle origini venete: l’attaccante della Samp ha un avo trevigiano, la stella del Palermo ha la mamma di Padova, che si è trasferita a Cordoba per seguire il marito impegnato ad aprire un’officina, e uno zio, cugino della mamma, ancora a Albignasego. Storie diverse, che richiederebbero definizioni diverse. Perché, in senso stretto, per oriundo bisognerebbe intendere solo chi è nato all’estero da genitori o nonni italiani, distinti dai naturalizzati, da chi ha acquisito la seconda cittadinanza italiana per matrimonio o per discendenza.

Il primo mondiale – Le polemiche sugli oriundi e i naturalizzati in maglia azzurra nascono già al momento della fondazione del calcio moderno in Italia, dalla Carta di Viareggio che riforma i campionati e istituisce il girone unico. È un documento di riforma fortemente politico, all’epoca il presidente della Federcalcio è Leandro Arpinati, ras del Partito Fascista a Bologna. La legge sulla cittadinanza in vigore dal 1912 considerava italiano chiunque avesse “sangue italiano”, anche quelli che oggi chiamiamo oriundi e allora erano i rimpatriati. L’idea di un’unica patria, alimentata anche da anacronistiche ambizioni coloniali, porta in Italia una cinquina di stelle argentine. E da Buenos Aires gridano alla “fuga dei piedi buoni” perché da noi c’è già il professionismo, introdotto dopo il caso Rosetta, e lì no. Pozzo vince i Mondiali di casa con Atilio José Demaría, schierato solo nella ripetizione del quarto con la Spagna, compagno di squadra di Meazza all’Inter fino al 1936 e con Enrique Guaita, che segnò il gol vittoria al Wunderteam austriaco e servì a Schiavio l’assist per la rete più importante, in finale, prima di scappare con Scopelli e Stagnaro, due oriundi della Roma, accusati di traffico illecito di valuta.

E soprattutto con “Mumo” Orsi, estroso suonatore di violino, frequentatore di locali notturni, pedina fondamentale della Juve del quinquennio d’oro e della nazionale, con Luisito Monti, nato a Buenos Aires da genitori romagnoli, anche lui presente nella finale mondiale di quattro anni prima con la maglia albiceleste. In più, in campo nel 7-1 agli Usa c’era in campo anche il brasiliano Guarisi, ala della Lazio che si ricorda più per un nome impossibile da dimenticare, Amphilóquio Marques.

Andreolo l’equilibrista – Quattro anni dopo, in Francia, Pozzo si accontenta di un solo oriundo, che ha preso il posto di Monti: Miguel Andreolo, il centromediano del “Bologna che tremare il mondo fa”, dove ha vinto quattro scudetti e lo storico Torneo dell’Esposizione di Parigi del ’37. Uruguayano con nonni salernitani di Valle dell’Angelo, negoziava con il presidente Dall’Ara, non sempre ben disposto a pagare i premi partita, camminando in equilibrio sulla balaustra della sede della società.

Il più grande, il più inutile – Con gli Anni ’50 cambiano le basi ideologiche del ricorso agli oriundi, che si spiega con il legame nostalgico da mantenere con figli e nipoti degli emigrati. È il secondo periodo d’oro. Vengono naturalizzati gli eroi del Maracanazo, Ghiggia e Schiaffino, con la sua genialità cantata anche da Paolo Conte, cui è stata attribuita perfino una parentela con Simone Schiaffino, fedelissimo di Garibaldi, eroe di Calatafimi. All’uruguagio, l’Italia ha pagato un vero e proprio contratto, ma l’ha visto giocare solo quattro partite, l’ultima il 15 gennaio 1958, la sconfitta per 2-1 a Belfast che ha impedito agli azzurri di qualificarsi per i Mondiali di Svezia. Quattro anni dopo. In realtà, Schiaffino per giocare in azzurro si fece pagare: un vero e proprio contratto (si parlò di due milioni e mezzo di lire a partita), che fra l'altro prevedeva la presenza in ogni raduno e in ogni trasferta anche della moglie Angelica. Non un buon affare, comunque.

In 4 anni Schiaffino con la nazionale giocò soltanto quattro partite, l'ultima a Belfast, il 15 gennaio 1958: una delle pagine più nere del libro azzurro, sconfitta 2-1 con l'Irlanda del Nord che costò eliminazione dal Mondiale di Svezia. Quattro anni dopo, nella battaglia di Santiago erano in campo Humberto Maschio, argentino di Avellaneda di origini lombarde che si ruppe il setto nasale per il pugno di Leonel Sanchez, e José Altafini. Per il Cile erano partiti anche Sivori e Sormani, che ha chiuso un’era con l’ultima partita giocata da un oriundo in nazionale per quarant’anni, il 13 ottobre 1963.

Un problema di sistema – Nel 1992, la riforma della legge sulla cittadinanza conferma il principio dello ius sanguinis, ma lo scandalo dei passaporti falsi all’inizio del 2000 sembrava aver messo la parola fine ai “rimpatriati” in nazionale. Ma il 12 febbraio 2003, quando serviva una nuova ala destra, non si è trovata soluzione migliore di Mauro German Camoranesi nato nel 1976 a Tandil, dove quasi un residente su quattro può vantare origini italiane, come suo nonno, originario delle Marche. Poi sono arrivati Osvaldo, Schelotto e una serie di giocatori nati all’estero da almeno un genitore italiano e che in Italia si sono formati come Dellafiore, Santacroce o il giovane Forestieri, nomen omen. La questione, comunque rimane. Il calcio infatti non rappresenta del tutto il concetto di italianità declinata in senso cosmopolita. Il problema di fondo l’ha spiegato bene Lucio Solazzi, un guru del calcio a 5, al Corriere Veneto. “Lo sbaglio lo commettono gli organi istituzionali, la Federcalcio in prima fila. Se non valorizzi la formazione di giovani italiani, come si può pensare che non ci si rivolga agli oriundi?”

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