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Cinque anni senza il “Moro”, ma tu sei sempre con noi

Il 14 aprile di cinque anni fa moriva Piermario Morosini, stroncato da un’aritmia cardiaca congenita. Per i giudici, con un defibrillatore si sarebbe potuto salvare. Ma l’obbligo per tutte le società di dotarsi dei dispositivi salvavita è prorogato ancora.
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È morto come tutti si muore, come tutti cambiando colore. È morto mentre inseguiva un sogno, mentre svolgeva il suo lavoro. È morto per quell'insieme di coincidenze che troppo spesso trasformano istanti di normalità nelle istantanee di una tragedia. È morto così Piermario Morosini, al 31′ di un Pescara-Livorno che altrimenti in pochi avrebbero ricordato. Era il 14 aprile di 5 anni fa. E se in questo weekend le squadre che l'hanno conosciuto, per cui ha militato, scenderanno in campo con una toppa speciale sulla maglia, se tutti porteranno lo stemma col numero 25, il suo numero, e la scritta “Ciao Moro”, è perché un ricordo può valere molto. Per la ong LiveOnlus, che userà i fondi per l'acquisto di defibrillatori e per la realizzazione di altri progetti benefici, in collaborazione con l'Assocalciatori. Per chi ancora non lo conosce, ma lo conoscerà. Per chi l'ha visto e per chi c'era.

L'autopsia: aritmia congenita

Per chi non si rassegna all'idea che sul grande prato verde dove nascono speranze, quelle speranze possano anche finire. È tutto un complesso di cose che ha fatto sì che Morosini si trovasse lì, accasciato a terra, dopo mezz'ora di partita. L'asettico linguaggio medico traduce la fatalità in "fibrillazione ventricolare indotta dalla cardiopatia aritmogena da cui era affetto e dallo sforzo fisico intenso". Gli immediati soccorsi prestati da tre medici non bastano. Il Vicenza, che gli intitola il centro di allenamento, e il Livorno ritirano la maglia numero 25 del giocatore. Ma una domanda rimane: si poteva salvare?

Una domanda che resta sospesa, inquietante, sempre uguale per quattro anni. Fino alle motivazioni della sentenza di primo grado che ha condannato Vito Molfese, medico del 118, Manlio Porcellini (del Livorno) e Ernesto Sabatini (del Pescara) a un anno e otto mesi. Il pm Gennaro Varone aveva invece chiesto due anni per Molfese e l’assoluzione (perché il fatto “non costituisce reato”) per Sabatini e Porcellini. Secondo l’accusa Molfese, il medico con la formazione più adeguata, aveva autorizzato uno “sconsiderato” spostamento di Morosini sulla barella e non aveva utilizzato il defibrillatore. Un comportamento definito “fuori da ogni protocollo medico e vi è una abdicazione dall’esercizio del ruolo e della competenza”.

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Si sarebbe potuto salvare

Eppure Marco Di Francesco, barelliere volontario della "Misericordia di Pescara”, l'aveva urlato più volte di passargli il defibrillatore in quegli istanti di confusione e di barelle sbagliate, con l'ambulanza bloccata nel parcheggio dello stadio da un'auto dei vigili. “Uno dei soccorritori stava cercando di aprire la bocca con le due dita, intervento necessario per agevolare la respirazione” ha testimoniato Di Francesco in Questura il 18 aprile del 2012. “ Mi posiziono vicino alla testa del ragazzo che in quel momento manifestava un Trisma (paresi facciale e convulsioni), ed effettuo la sub-lussazione della mandibola, mettendo la testa in iperestensione. Ho preso una Ghedel dalla borsa della Croce Rossa ed l'ho inserita in bocca. Si tratta di una cannula che, impedendo alla lingua di andare all'indietro, consente la ventilazione attraverso il pallone di Ambu". Intanto un operatore della Croce Rossa, come ha ricostruito Leila Di Giulio, dirigente della Digos e vice questore aggiunto a Pescara, in servizio quel giorno allo stadio, entra con la barella, ma subito torna verso la sua postazione, per prendere la valigetta gialla con il defibrillatore. Nessuno lo userà. E sarebbe bastato, dice la Procura, perché Morosini, al 70%, si salvasse. E non morisse così, mentre faceva quel che più gli piaceva, in un pomeriggio di primavera che anticipa maggio. E ci vuole troppo coraggio a morire di maggio.

Una vita segnata dal dolore

L'oceano verde svanisce mentre gli occhi del Moro si chiudono per sempre e lasciano a chi rimane orizzonti di dubbi e domande senza risposta. Evapora in una nuvola amaranto, sconfitto dalla vita che in poco tempo tutto gli ha tolto ma non il sorriso. Con la morte, col dolore, Piermario ha dovuto imparare a convivere. Perde la madre nel 2001, a 15 anni, e il padre due anni dopo per un infarto. Ha un fratello gravemente disabile, che si suicida nel 2004, l'anno del suo passaggio dall'Atalanta all'Udinese, e una sorella più grande, anche lei con handicap, ricoverata da sempre in un istituto. Con più di un velo di tristezza in fondo all'anima, Morosini completa la trafila nelle giovanili dell'Atalanta. Vorrebbe essere un po' Redondo e un po' Almeyda, cresce col mito di Mancini e diventa un centrocampista moderno, che gioca da capitano la finale per lo scudetto Primavera persa contro la Roma. Segna solo un gol da professionista, col Vicenza, ma gioca da titolare in tutte le nazionali giovanili. Primo compagno di stanza in azzurro di Domenico Criscito, gioca da protagonista l'Europeo Under 21 del 2009 in Svezia.

La corsa verso il destino si fermerà presto. Muore come tutti si muore per una malattia genetica, ereditaria, la stessa che ha stroncato Puerta nel 2007. A Siviglia, è con la sua maglia addosso che il ds Monchi ha salutato fra le lacrime di commozione dopo aver costruito un piccolo grande miracolo sportivo per inseguire una nuova sfida a Roma.

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Defibrillatori… non per tutti

In Italia, dove si erigono le statue per dimenticare un po' più in fretta, lacrimano gli occhi e si asciugano le mani. Nemmeno lo shock basta per obbligare tutte le società a dotarsi dei defibrillatori, che a Bari hanno salvato la vita di un tifoso non più di due settimane fa. Il decreto Balduzzi, allora ministro della salute, del 2013 non è ancora del tutto applicato. L'obbligo per i club dilettantistici di acquistare i dispositivi salvavita è stato ancora prorogato, al luglio 2017, e così passerà anche la quinta stagione calcistica dalla morte di Morosini.

Cinque anni per sperare di veder diventare legge una misura di interesse generale, chiedere per credere a Felice Natalino, ex di Inter e Crotone, che vive, come ha detto alla Gazzetta dello Sport, “con un defibrillatore dentro al petto. Ogni tanto passo una mano dove c’è la cicatrice. Fa la sentinella ai miei battiti e se per caso impazziscono, interviene. In modo drastico. E’ già accaduto un paio di volte: è come prendere una scossa molto forte, resto intontito qualche secondo. Il defibrillatore funziona tipo un interruttore: spegne il cuore per azzerare l’aritmia. Quando riparte, il pericolo è passato. E anche i brutti pensieri”.

All'inizio del campionato, è partita una campagna di crowdfunding promossa da Lega Pro e Università di Parma in collaborazione con Do It Yourself e Iredeem Spa. L'obiettivo è ambizioso: coinvolgere i tifosi per raggiungere 70 mila euro, e così dotare tutti gli stadi della terza divisione di un defibrillatore per il pubblico, in aggiunta a quello già previsto per le squadre. “Il grande cuore della C” dovrebbe salvare il cuore che batte nel cuore d'Italia e consentire un tipo di intervento efficace solo se eseguito nei primi minuti dopo un arresto cardiaco improvviso. L'home page del sito del progetto tiene in bella evidenza il procedere della raccolta fondi. Oggi, si legge, sono stati raccolti quarantotto euro. Sì, senza altri zeri. Quarantotto euro. Nel Paese in cui un calciatore muore in campo, durante una partita, e un defibrillatore avrebbe potuto salvarlo.

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