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Baggio, la “provincia” esalta l’essenza del genio

Da Firenze a Brescia, la “provincia” del calcio gli ha restituito molto di più rispetto alle grandi squadre. “Torno e spacco tutto”, così disse dopo due infortuni al ginocchio destro fino a diventare la risposta italiana a Diego Armando Maradona.
A cura di Vito Lamorte
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Tutti corrono, mentre lui frena; tutti giocano a memoria, mentre lui crea; tutti sono stressati, mentre lui resta freddo. In un mondo di centrocampisti che non ragionano, è il simbolo del calcio che piace.

Con queste parole Jorge Valdano, che oltre ad essere stato un grande attaccante è una penna eccellente, prova a descrivere quello che è stato Roberto Baggio per il calcio mondiale. Anche all'estero sono molto coscienti della magia che sprigionavano i piedi del Divin Codino. Le sue giocate e i suoi gol hanno fatto il giro del mondo e il talento cristallino è stato sempre riconosciuto da addetti ai lavori e non. Quando le luci attorno a lui si sono offuscate lui le ha puntualmente riaccese, abbagliando tutti coloro che lo davano per finito ad ogni caduta.

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Non è affatto semplice descrivere il numero 10 più amato del dopoguerra perché Baggio ha saputo unire l'opinione pubblica come pochi nonostante i numerosi infortuni, i disguidi con gli allenatori più importanti che ha avuto e le peripezie che ha dovuto affrontare per affermarsi nelle big del nostro calcio. Le esperienze di Firenze, Bologna e Brescia ne sono la testimonianza diretta.

Firenze, Raffaello e il Rinascimento

Dopo aver firmato per la Viola Baggio subisce tre infortuni gravi in successioni: si rompe il crociato e il menisco della gamba destra nel maggio del 1985 e si lesiona lo stesso menisco nel settembre '86. Lo sconforto dopo le operazioni è tanto ma Roberto riesce a rialzarsi e afferma: "Torno e spacco tutto". In tre stagioni (le prime due non le contiamo) colleziona 136 presenze e realizza 55 reti che lo fanno diventare il beniamino della Fiesole. Si vede da come si muove in campo che non è un giocatore come gli altri e le sue giocate portano ad approccio diverso, se non innovativo, del calcio.

Tra i principi cardini del Rinascimento fiorentino c'era il "ripudio degli elementi decorativi e ritorno all'essenzialità" e la "riorganizzazione dello spazio" e Baggio sembra realizzare proprio questo: attenzione, non sto dicendo che le giocate del ragazzo di Caldogno non rubano l'occhio ma sono sempre tese a uno scopo preciso, non sono mai banali e, per questo motivo, prima del più conosciuto soprannome (Divin Codino) viene chiamato "Raffaello", come il pittore e architetto urbinate.

Le qualità che Baggio mette in mostra con la maglia della Fiorentina sono da vero fuoriclasse e molti lo definiscono, in maniera molto sobria, "la risposta italiana a Diego Armando Maradona". Mario Sconcerti, nel suo libro "Storie delle idee del calcio", lo dipinge così:

Baggio era semplice ma irresistibile. A volte sembrava trasognato, una mancanza di contatto elettrico che è tipica del numero dieci. Non è fatto per le mezze misure. Se non entra in partita non lo vedi. Se entra, domina.

Quel ragazzo con la maglia numero 10, ereditata da Giancarlo Antognoni, sembra essere diretto discendente della "signoria medicea" e di tutti quegli uomini che avevano riportato Firenze al centro della scena culturale mondiale. In questo caso si parla di calcio e non di architettura, pittura o scultura ma questo è stato Baggio per Firenze e i fiorentini.

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Bologna, la ‘new wave' di Baggio

Dopo la parentesi juventina e milanista, ecco l'approdo a Bologna. Così come per il periodo della new wave italiana tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80, che porta la città delle torri gentilizie ad essere conosciuta in tutto il mondo per quest'esplosione di creatività, nella stagione 1997/1998 grazie a Roberto Baggio la città emiliana esce dal provincialismo (calcistico) in cui è caduta da troppo tempo e vede circolare il suo nome di nuovo anche a livello europeo. Il Divin Codino arriva in maglia rossoblù all'età di 30 anni e, nonostante si fosse espresso per anni ad altissimi livelli, sembra in un periodo di continua evoluzione e sperimentazione del suo modo di giocare. Quell'anno è stato davvero incredibile.

La stagione che porta al Mondiale del 1998 si sviluppa ad un ritmo velocissimo, quasi ripercorresse "Volare" dei Confusional Quartet: quello che succede in quei 10 mesi sotto le due torri è scritto negli almanacchi (22 gol in 30 partite) ma ciò che impressiona di più è il modo in cui Baggio riesce a conquistare la convocazione al suo terzo mondiale consecutivo. Prestazioni da vero leader e gol stupendi riescono a riportare in auge la popolarità di un calciatore che sembrava essere in ascesa. Lucio Dalla ne parla quasi come di un'entità sovrannaturale: "A veder giocare Baggio ci si sente bambini… Baggio è l'impossibile che diventa possibile, una nevicata che scende giù da una porta aperta nel cielo".

Brescia, la sonata dell'addio

Il passaggio all'Inter è un altro capitolo non proprio felice della carriera di Baggio ma nel 2000 arriva la chiamata di Gino Corioni e il fantasista di Caldogno approda a Brescia. L'infortunio al ginocchio sinistro nel 2002 fa ripiombare le tenebre intorno al numero 10 ma lui non ci sta ad uscire di scena così. Lavora e lotta con il problema fisico e cambia modo di giocare: non si vede più il Baggio che dribbla e semina avversari come birilli ma guida i suoi compagni accarezzando il pallone come Arturo Benedetti Michelangeli toccava il pianoforte. Quando la palla arriva tra i suoi piedi o la poggia per battere un calcio piazzato tutti aspettano col fiato sospeso di vedere cosa accadrà. Un evento scollegato dal tempo. Un'emozione da gustare in religioso silenzio.

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Quelli che hanno sempre cercato di ingabbiare il suo estro non hanno fatto altro che aumentare la sua popolarità e per questo tutti gli appassionati del gioco più seguito del mondo lo amano, indifferentemente dalla fede calcistica. Roberto Baggio ha sempre fatto la differenza ma non lo faceva pesare, aspettava che fossero gli altri a evidenziarla. Era consapevole di quello che poteva dare e aveva un grande rispetto per la sua libertà, in campo e fuori. Forse è questo il motivo per cui la "provincia" gli ha restituito molto di più rispetto alle grandi squadre. Aveva bisogno di essere il centro e non la parte di un tutto.

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