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Abiure e affari, i soldi comprano tutto. Anche la Fede

Il Real Madrid toglierà la croce dallo stemma. Il simbolo cristiano potrebbe ostacolare l’espansione nei paesi musulmani dopo l’accordo con la banca di Abu Dhabi. Era già successo al Barcellona, che in nome dei soldi cambia maglia e apre alle strisce orizzontali. Dove andremo a finire?
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Non sono importanti i soldi, è la competizione” diceva Michael Douglas versione Gordon Gekko in Wall Street. “È giocare la partita e vincere. È solo questo”. Ma nel nome del business, nel nome dei soldi, ogni maledetta domenica (e non solo) sempre più atleti, sempre più squadre, sempre più discipline rinunciano alla storia, alla tradizione, all'identità. E il denaro, quello che non può comprare l'amore, finisce per comprare di riflesso almeno l'inimicizia degli appassionati, come i tifosi del Barcellona che hanno tutt'altro che gradito le maglie per la prossima stagione: per la prima volta dopo 115 anni di storia, infatti, il design cambierà e si piegherà alle strisce orizzontali. La Nike, sponsor tecnico del club, “aveva bisogno di un design innovativo perché la vendita delle maglie scende quando sono molto simili a quelle dell'anno precedente” ha spiegato il presidente Josep Maria Bartomeu, che ha approvato il nuovo design.

Via la croce – Il Real Madrid è andato ancora più in là: cambierà il proprio logo. Il Real ha abiurato alla croce, simbolo religioso della corona di Spagna che adorna lo stemma del club più nobile della cattolicissima Spagna dal 1920, quando re Alfonso XIII ha associato l'azienda di famiglia alla squadra. Ma adesso la squadra dei re ha firmato un'alleanza strategica con Emirates e con la Banca Nazionale di Abu Dhabi, che potrebbe acquisire i naming rights del Bernabeu, e quel simbolo non va proprio d'accordo con l'espansione del brand madridista nei Paesi musulmani. E non è nemmeno la prima volta. La croce era già stata rimossa temporaneamente nel 2012, durante la trattativa per la costruzione del Real Madrid Resort, megastruttura su 50 ettari nell'emirato di Ras al-Khaimah. Qualche sacrificio, avrà pensato Florentino Perez, è accettabile se grazie a questi sponsor il club ha chiuso il 2014 con un fatturato da 600 milioni, con un incremento dell'11%. Sponsor che evidentemente gradiscono le 345 mila magliette di James Rodriguez vendute in poche settimane o le 800 mila di Cristiano Ronaldo. Peraltro, questo non è il primo caso di “abiura” nel calcio. Proprio il Barcellona ha tolto la croce di San Giorgio dallo stemma di tutte le maglie vendute in Medio Oriente dopo l'accordo con la Qatar Foundation, accusata dal quotidiano “El Mundo” di finanziare Yusuf al-Qaradawi, un religioso musulmano sunnita qatariota di origine egiziana, che dirige il Consiglio europeo della fatwa e della ricerca.

Non calpestate la storia – Anche il russo Gaydamak ha provato a cambiare la storia del club che ha acquistato nel 2005. Ma non è facile cambiare l'identità del Beitar Gerusalemme, club nato nel 1927 come emanazione dell'omonimo movimento sionista, che in 90 anni di storia ha fatto giocare solo calciatori ebrei. Gaydamak ha comprato il club nel 2005 e dopo un mese il nigeriano Ibrahim Nadallah, un musulmano. La reazione della Familia, una frangia xenofoba di tifosi tra le più violente al mondo, non si è fatta attendere. E non ha funzionato nemmeno il tentativo di assumere allenatori che potessero funzionare da testimonial internazionali dei suoi propositi di integrazione (Osvaldo Ardiles, Luis Fernández) perché nel 2013 dopo un'amichevole contro i ceceni del Terek Grozny, organizzata anche per facilitare il trasferimento di Sadayev e Kadiyev, i tifosi hanno incendiato la clubhouse e mandato in fiamme i ricordi, i memorabilia, i trofei della squadra. Come a dire: la storia entra dentro le stanze e le brucia, perché nessuno la può comprare, né cambiare.

Le derive dell'ipersensibilità – L'ipersensibilità alla questione religiosa e alla convivenza con i musulmani ha generato negli ultimi anni anche qualche deriva che finisce per svilire un po' la serietà e il valore di un tema così alto. Nel 2007 l'Inter ha giocato con una maglia da trasferta celebrativa del centenario, con una grande croce rossa su fondo bianco. Sorteggiati contro il Fenerbahce, i nerazzurri hanno giocato con la casacca tradizionale a Istanbul e con la maglia “speciale” a San Siro, con l'approvazione della Uefa e del club turco. Ma l'avvocato Baris Kaska, esperto di diritto europeo e grande tifoso dei Sarı Kanaryalar ("Canarini gialli") ha presentato un appello, rimasto senza conseguenze, perché la maglia ricordava l'insegna dei cavalieri Templari, i leggendari monaci-soldati hanno combattuto a lungo contro i Musulmani dopo la prima crociata. Qualche anno dopo, poi, è finito sotto osservazione l'inno dello Schalke 04 perché in un verso della terza strofa, che non fa parte del testo originale del 1924 ma è stato aggiunto nel 1963, i tifosi cantano: “Maometto non capisce niente di calcio, ma tra tutti i colori ha scelto il bianco e il blu”. La strofa, rielaborazione di una canzone popolare del 1797 ("Maometto è il mio protettore, conosceva la vera bellezza. Per lui solo il verde era sacro tra tutti i colori") ha scatenato mail di protesta e studi di esperti di cultura islamica ma non è stata eliminata dall'inno “Biancoblu, quanto ti amo”.

I colori sociali non esistono – Un inno del genere, però, rischia di non poter essere più cantato nel calcio moderno. Perché esperti di marketing e sponsor tecnici stanno cancellando il concetto stesso di colori sociali. In Italia è iniziato tutto con la Parmalat, che ha convinto il Parma ad abbandonare la maglia con la croce nera in nome di una divisa bianca in cui il marchio si potesse leggere meglio e ha fatto infuriare i tifosi del Palmeiras (la “gemella” brasiliana dei ducali) perché ha aperto quella che sarebbe diventata l'era più felice nella storia del club cambiando i colori della maglia, schiarendo il verde e aggiungendo delle sottili strisce verticali bianche. L'opposizione al calcio moderno tra i tifosi ha continuato a crescere. Tifosi che a Parigi hanno invaso gli Champs-Elysées nel 2009 per protestare contro la prima rivoluzione degli sceicchi qatarioti di Al Jazeera, che hanno eliminato la banda rossa al centro delle maglie del PSG: le nuove divise, stravolte, non ricordano più il tricolore francese ma i tifosi alla fine si sono affezionate alle nuove maglie, e soprattutto ai campioni che le indossano e si prendono la bella soddisfazione di battere il Barcellona in un derby fra sponsor. Tifosi che a Bilbao hanno dovuto cedere per la prima volta, nel 2008, alla presenza di un marchio sulle maglie dell'Athletic ma continuano a opporsi alla presenza in squadra di giocatori non baschi o comunque non cresciuti da piccoli nelle strutture del club.

Il futuro – Ma la rivoluzione iniziata il 24 marzo 1973, quando per la prima volta un logo comparve sulla maglia di una squadra, quando l'Eintracht Braunschweig sfruttò una zona grigia del regolamento per promuovere l'amaro Jagermeister, è ormai inarrestabile. Il business vince su tutto. I soldi possono comprare tutto, cose e persone. Persone come il mezzofondista britannico, figlio d'arte, Gregory Koncella, disposto a cambiare nome (si fa chiamare Yusuf Kamel), religione e nazionalità per farsi ricoprire d'oro in Bahrain. E tradizioni, come il divieto di apporre loghi sulle maglie delle squadre negli Stati Uniti. È caduta prima la Major League nel 2007, con effetti non così negativi come si pensava sul legame tra i tifosi e i club, e ora potrebbe cadere perfino l'NBA. Dopo essersi piegata ai voleri dell'Adidas e introdotto le magliette a mezza manica al posto delle canotte, che non piacciono ai big ma sono molto “marketable” per le franchigie giovani (soprattutto Clippers, Warriors e Timberowolves), anche la lega più potente del mondo potrebbe acconsentire all'ingresso degli sponsor sulle maglie. E sarebbe davvero un punto di non ritorno.

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